Recensione: Far
È con una certa soddisfazione che mi appresto a recensire “Far”, ultimo nato in casa Stormlord e in uscita proprio in questi giorni. Innanzitutto perché ascolto il gruppo romano dal loro secondo album, quel “At the Gates of Utopia” che mi affascinò fin da subito nonostante una resa finale ancora acerba ma già ben consapevole di dove il gruppo volesse andare a parare; in secondo luogo perché, nel corso degli anni, ho apprezzato l’opera di affilatura della proposta del quintetto. Per chi non la conoscesse, la compagine capitolina propone un metal sinfonico agguerrito e maestoso che loro stessi definiscono Extreme Epic Metal: prendete una base che mescola un robusto power metal e black sinfonico, mettete le tastiere al centro della scena, aggiungete melodie maestose e dall’intenso profumo di colonna sonora e condite il tutto con una voce aggressiva che spazia tra scream e growl.
Dopo gli ottimi “Mare Nostrum” e “Hesperia” aspettavo gli Stormlord con una certa ansia e, dopo sei anni di attesa, posso tirare un sospiro di sollievo: “Far” è un album solido, maestoso e atmosferico, permeato da un respiro intensamente cinematografico che dona alle composizioni la giusta, affascinante grandeur senza, per questo, rinunciare ai riff. Basta l’incipit dell’opener “Leviathan” per rendersene conto: una melodia possente, scandita da un ritmo marziale, che sembra fatta apposta per illuminare il paesaggio desolato di qualche film post apocalittico e di colpo esplode con l’ingresso in scena delle chitarre. La canzone si sviluppa su velocità differenti – ottimamente gestiti dalla prova di David alle pelli – frutto di tempi lenti durante la strofa e di repentine accelerazioni, attraverso cui i nostri snocciolano riff affilati in cui si percepisce un certo retrogusto death. L’apertura melodica nell’ultimo quarto apre a un breve passaggio molto mediterraneo che spezza per un attimo la tensione del pezzo, profumandola di esotismo. “Mediterranea” parte invece come il classico pezzo black, ma l’improvvisa intromissione del fraseggio melodico scompagina le carte, donando anche qui un profumo del tutto particolare alla canzone prima di cedere nuovamente terreno ai riff più tipicamente black. Il rallentamento centrale introduce una nota più infervorata che apre allo splendido intermezzo dominato dal coro, a sua volta seguito da un fraseggio che tanto profuma di Bal Sagoth poco prima del finale. Si arriva alla title track, che incede a velocità alterne: “Far” mescola riff nervosi e aperture magniloquenti disegnando così atmosfere complesse, a metà strada tra l’esplosione estatica delle melodie e nervature più trattenute, tese. Interessante anche l’intromissione della voce pulita nella seconda metà del pezzo, che spezza un po’ lo strapotere di scream e growl prima del finale più arrogante. “Sherden” si apre con lo sciabordio delle onde e i rumori del mare, salvo poi cedere il passo a un arpeggio dal sapore mediorientale. Il crescendo che segue esplode in un pezzo dalle possenti orchestrazioni, enfatico e dilatato, in cui le tastiere dominano la scena, ricamando scenari maestosi. Il breve assolo stempera un po’ la maestà del pezzo, mentre il rallentamento centrale gli dona una certa durezza cafona, che il successivo sviluppo trasforma in qualcosa di più dilatato, languido. “Crimson” sorregge l’arpeggio in apertura con bastonate dal profumo di melodeath che, pian piano, prendono corpo per dar vita a una traccia vorticosa ma al tempo stesso marcata stretta dalle tastiere, qui stranamente discrete. Le chitarre si prendono il centro della scena, concedendo a Riccardo di tornare in primo piano solo in un paio di occasioni – soprattutto nella parte centrale – ma il risultato finale è, a mio avviso, un po’ confuso, a metà strada tra la cieca dimostrazione di forza e melodie non pienamente sfruttate. Stesso discorso si potrebbe fare con “Cimmeria”: i tempi rallentano, permettendo ai nostri di indulgere in un brano più atmosferico, in cui gli squarci melodici interrompono un tessuto sonoro quasi disteso facendo da contrappunto a growl e scream, ma anche qui i nostri non affondano appieno il colpo, rimanendo a mio avviso bloccati in un episodio un po’ sottotono. Una melodia incombente apre “Invictus”, altro brano maestoso che sembra proseguire il discorso di “Cimmeria” pigiando, però, sull’acceleratore. Ciò permette ai nostri di mettere più a fuoco le caratteristiche del pezzo, impennando il tasso di cafonaggine della canzone ogni volta che le tastiere guadagnano il centro della scena con i loro gorgheggi dall’intenso sapore cinematografico; questa tracotanza sinfonica trova compimento nella parte finale, in cui entrano in scena i cori. Rumori di battaglia, invece, introducono i ritmi perlopiù scanditi, seppure non manchi qualche rapida frustata, di “Romulus”. La traccia si districa attraverso atmosfere frastagliate, che variano da una tensione trattenuta a fatica, squarci di trionfalismo e improvvisi sprazzi più tranquilli, con le chitarre che contendono costantemente la scena alle tastiere fino a confezionare un brano passionale e dal bel tiro. Ci si avvicina alla fine, e con “Vacuna” i nostri tornano, dopo un incipit sognante, a giocarsi la carta della velocità: il pezzo è agguerrito, scandito dall’incessante lavoro di David alla batteria e dominato da riff taglienti e melodie fastose; l’intermezzo centrale introduce una nota di trionfalismo assai accentuata, complice anche la parte narrata – che mi ha ricordato il gioiello “De Ferro Italico” – che ci accompagna al finale scandito. Chiude l’album “Levante”, altro pezzo atmosferico e dal notevole carico di feeling. Le melodie si dilatano, dominando la scena ma senza diventare mielose. Nonostante la parte del leone la facciano ancora le tastiere, il resto del gruppo non se ne sta in disparte, contribuendo a creare un bel climax e avvolgendo l’ascoltatore con un brano vellutato e sinuoso; l’ingresso del coro gregoriano costituisce il giusto quid in più che, lungi dal risultare stonato o fuori posto, corona il pezzo donandogli profumi inusuali, ponendo il giusto sigillo su un album decisamente ben fatto, il cui unico difetto è forse dato dall’eccessiva ingerenza delle tastiere che, di tanto in tanto, soffocano il resto degli strumenti impedendo loro di risultare davvero incisivi.
A parte questo difettuccio (che peraltro potrebbe anche piacere, facendo parte del DNA degli Stormlord da che ne ho memoria) e un paio di episodi a mio avviso un po’ sottotono, non posso che considerare “Far” un gran bell’album, forse addirittura l’apice del gruppo capitolino, che di sicuro piacerà agli estimatori di Borchi & Company e a tutti gli amanti del metallo, diciamo così, d’ampio respiro.