Recensione: Fascinating Violence
Ci sono tre giapponesi, due italiani e un manipolo di scandinavi… Potrebbe essere l’inizio di una delle classiche barzellette che ci raccontiamo fin dalla tenera età; tuttavia, al contrario, la storia che ci accingiamo a raccontare è quella di un giovane gruppo proveniente dall’estremo oriente e il cui sound risulta, viceversa, fortemente radicato nella vecchia Europa: i Gyze.
La band, un terzetto composto dagli androgini Ryoji (voce, chitarra e tastiere), Shogo (basso e voce) e Shuji (batteria) e dedito, a dispetto del look visual rock-oriented, ad un death melodico di matrice nordeuropea, nasce a Sapporo, Giappone, nel 2009 sotto il monicker Suicide Heaven. Dopo qualche anno di gavetta, con annesso trasferimento a Tokyo e cambio di nome nell’attuale Gyze, i nipponici si mettono in luce durante il W:O:A 2012, riuscendo a guadagnarsi l’agognato deal con la nostrana Coronor Records.
Giungendo a tempi più recenti, è proprio di questi giorni l’uscita, sotto l’egida dell’italica label, del loro debut album intitolato “Fascinating Violence”: un lavoro in grado di proporre della musica scorrevole e piuttosto piacevole, suonata e arrangiata con tutti i dovuti crismi ma, purtroppo, carente in termini di personalità. Già, perché pur in presenza di canzoni formalmente valide, il debito di ispirazione nei confronti dei giganti del death melodico scandinavo (In Flames, Soilwork e Children Of Bodom in particolare, senza dimenticare l’apporto dei nostrani Disarmonia Mundi con il bravo Ettore Rigotti in consolle e l’ospite Claudio Ravinale alle seconde voci) è fin troppo evidente e per nulla nascosto. Non stupisce, dunque, il ritrovarsi sin dalle prime note dell’opener “Desire” in mezzo a un tripudio di chitarre armonizzate dal suono fortemente digitalizzato e a rifiniture a base di tastiere sintetiche, il tutto coronato da una massiccia dose ritornelli in voce pulita alternati a strofe in growl/scream e da un guitar work che, soprattutto in fase solista, sfocia in più di un’occasione in territori affini a quelli esplorati dalla band di Alexi Lahio.
L’album, come anticipato, scorre in maniera discreta ma tutto sommato indolore per via di canzoni piuttosto morbide e giocate all’incirca sulle stesse coordinate, tra le quali si distinguono per la maggior resa complessiva la citata opener e le più che buone “Thrash My Enemy” e “Trigger Of Anger” sicuramente le più violente e, forse non a caso, le più efficaci. Tra le restanti alcune ammiccano maggiormente al metalcore e al melo/death più moderno e levigato (“Desperately”, la title track) e altre al thrash metal old school (“Regain”), mentre l’ipermelodica “Dinasty” si guadagna il titolo di brano più soft in scaletta. Il vero cedimento, un po’ per sfinimento, un po’ per evidente mancanza di soluzioni alternative, giunge verso il finale con la tripletta costituita da “Day Of The Funeral”, “Midnight Darkness” e “The Black Era”, troppo sbilanciate verso il death neoclassico e appesantite da partiture di chitarra addirittura ridondanti.
Le potenzialità ci sono, quindi, ma ci vuole più coraggio: non è sufficiente proporre della musica formalmente perfetta per fare il “botto”, occorre porre maggior attenzione ai contenuti e conferire maggiore profondita a brani altrimenti piacevoli ma nel contempo sterili e poco longevi. I Gyze hanno dalla loro parte il tempo e una buona perizia strumentale che li pone al di sopra della sufficienza; tuttavia per poter sperare di emergere in un panorama musicale sempre più caotico ed affollato dovranno decidersi a recidere definitivamente il cordone ombelicale che li lega ad act più famosi e blasonati e trovare una strada tutta loro con la quale riuscire ad imporsi.
Stefano Burini
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