Recensione: Fastway
Fastway…
Una strada desolata dove lanciarsi e toccare velocità mai immaginate. Una lingua d’asfalto divorata senza pietà dalle ruote dell’automobile. La carica dell’hard, la magia del rock. E se lo stereo ulula riff odoranti di benzina insieme con le strofe più bollenti del peggiore incubo dantesco non ci resta che stringere con maggior forza le mani sul volante, lasciare che le nocche impallidiscano per la pressione delle ossa e salutare con un sorriso splendente gli alberi e le case che vanno incendiandosi al nostro passaggio.
Fastway… Fast & Way.
Un nome, una combinazione. Ebbene sì! Nel 1983 “Fast” Eddie Clarke, il rimpianto chitarrista dei Motorhead, fautore di album quali Bomber, Overkill, Ace Of Spades e Iron Fist, lascia la band nelle mani dell’amico e socio Lemmy Kilmister per affiancarsi al mitico bassista degli UFO Pete Way. Il cerchio si completa con l’ingresso di Jerry Shirley, ex batterista degli Humble Pie e del singer Dave King, che più che un cantante sembra un medium caduto in trance subito dopo aver evocato la selvaggia anima di Robert Plant. Purtroppo Way, legato con un contratto alla Chrysalis Records, deve abbandonare il gruppo per approdare alla sontuosa corte di Mr. Ozzy Osbourne. Clarke vede il marchio della propria band spezzarsi a metà davanti ai propri occhi ma non si scoraggia. Ingaggia immediatamente il bassista Mick Feat e dà inizio alle registrazioni di “Fastway”.
“Fastway”
Al centro di una classica bandiera di Formula Uno a scacchi bianchi e neri risalta con forte impatto il nome della band e dell’omonimo album. E’ un’immagine scarna, semplice, che non si scorda. Come l’opener “Easy Livin’”, dal riff tanto semplice quanto memorabile, incalzata da un ritmo che se non riesce a farti muovere è perché ti hanno legato a un palo con due tonnellate di catene. Si sente sin da subito che alla chitarra c’è un certo “Fast” Eddie Clarke: poche note, tantissima sostanza. L’ugola di Dave King vibra e ci ritroviamo alla seconda traccia del disco: “Feel Me, Touch Me (Do Anything You Want). E’ un pezzo corposo, ottimamente strutturato e debitore di un Hard Rock più datato. All’improvviso, nella parte centrale del brano, tutto si tinge d’arancione come il più maestoso dei tramonti: King ha appena afferrato la sua armonica e il suo caldo fiato fa virare con naturalezza il pezzo su sonorità più prettamente Blues. In “All I Need Is Your Love” Jerry Shirley consuma le proprie bacchette creando ritmiche trascinanti che ricordano la passione e il coinvolgimento del miglior John Bonham. In realtà tutto il pezzo è legato alla produzione Hard Rock dei primi Led Zeppelin e in modo particolare il ritornello, fresco e solare come il genuino canto d’amore di un uomo alla propria donna.
Un breve arpeggio di chitarra classica e una serie di accordi accompagnati dalla tenera voce di King fanno da introduzione a uno dei pezzi più riusciti del disco. Stiamo ascoltando “Another Day”, brano cattivo, duro, che se ne sbatte. King parte dolcemente, ma non resiste più di quindici secondi. Immediatamente tutto s’incendia colpito dai riff provenienti dal lato più “Fast” della band inglese, quello di Eddie. E’ il momento di “Heft” e il paragone con i padri Led Zeppelin è scontato anche per l’orecchio del più grande consumatore di Techno e House che ci sia sulla terra. Siamo di fronte a un brano carico d’emozioni, cupo, chiuso, che segue un tracciato fatto di Blues, alcool e polvere d’ossa. Il ritmo lento e cadenzato lascia spazio, nella parte centrale, a una divagazione Rock‘n’Roll estremamente trascinante che, purtroppo, dura troppo poco rispetto ai quasi sei minuti di tutto il brano. Aprite le finestre e fate entrare un po’ d’aria. Siamo giunti alla traccia numero sei, “We Become One”, e ora si boccheggia davvero! Sì, perché difficilmente, almeno secondo il mio parere, si è in grado di scrivere un brano come quello che sto ascoltando mentre batto sulla tastiera. Le laceranti note di questo pezzo si trasformano in immagini infuocate e fantasie proibite. E’ una canzone che non mi stancherò mai di sentire, una vera e propria perla dai contorni ruvidi e taglienti.
Mi riprendo da “We Become One” e passo a “Give It All You Got”. Bentornato sole, stringo la mano al buon umore! E’ un pezzo scanzonato, forse il più debole dell’album, ma pur sempre godibile e trascinante. Clarke e soci ritornano sugli incredibili livelli dell’intero disco con la successiva “Say What You Will” e non ce n’è più per nessuno. Basso e batteria non sono mai andate così d’accordo e King legittima il proprio cognome indossando artigli e criniera nei panni nel più ruggente “re” della foresta. Il pezzo rallenta sul finale e regala un attimo di respiro concedendo al basso di avere la meglio sugli altri strumenti. Le gambe vanno da sole… la testa sembra montata su una molla… il prossimo sorpasso si effettua a 180 Km/h. Con la successiva “You Got Me Runnin’” il motore diminuisce i propri giri. Siamo stati abituati troppo bene e anche una bella canzone, adesso, sembra normale ed evitabile. Nessun problema. Ci pensa la gasante “Give It Some Action” ad accompagnarmi sin dentro al box dopo questa splendida scorazzata tra campagne fatte di watt ombreggiate dalle bianche nuvole gonfie d’elettricità.
Il disco si chiude come si è aperto, con un preciso calcio sulle gengive. Passo la lingua sui denti sporchi di sangue e il mio corpo ha un sussulto. Mi ricordo che nel porta Cd ho “All Fired Up”, successivo lavoro dei Fastway. La mano si muove da sola… riapro il cancello del garage e introduco il disco nello stereo… Prima di inserire la retromarcia mi guardo allo specchietto retrovisore. Sì, sono ancora sporco di sangue, ma non importa, non fa male: ho voglia di Rock, ho voglia di Fastway.
Motley Skull