Recensione: Fatal Portrait

Di Abbadon - 19 Novembre 2004 - 0:00
Fatal Portrait
Band: King Diamond
Etichetta:
Genere:
Anno: 1986
Nazione:
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90

Facciamo un po’ di storia, necessaria per capire il disco. Alla fine del 1984 il grande King Diamond  dovette assistere allo smembramento dei suoi Mercyful Fate, split causato dall’abbandono di Hank Shermann (che fondò i Fate) e Kim Ruzz, ritiratosi a vita privata. Quasi da solo (rimanevano con lui Michael Denner e Timi Hansen) ma non certo perso, il vocalist inizia a scrivere musica per conto proprio, setacciando nel frattempo le scene in cerca di nuovi fedeli alleati. Arrivano dunque alla corte del Re Diamante, che nel frattempo aveva fondato il progetto “Gheisha” (divenuto semplicemente “King Diamond” poco dopo), il pirotecnico batterista Mikky Dee e un chitarrista di nome Floyd Kostantin. Per fortuna dei fans, Floyd venne cacciato dopo un giorno di prove, rimpiazzato da Anders Allhage. Proprio Anders sarà il nuovo pilastro della band. Infatti, se questo nome possa non dire niente ai più, sicuramente cambierete idea ora, visto che il guitarist decide di cambiarlo , diventando semplicemente “Mr. Andy LaRocque”. Con due elementi fenomenali e fidati e coi  due nuovi “mostri”, King dunque si lancia di nuovo nel mondo Metal, e alla grande. Preceduto dal gustosissimo Ep  “No Present for Christmas”, nel 1986 vede luce infatti “Fatal Portrait”, prodotto destinato a diventare semplicemente un pilastro. Fatal, parlando tecnicamente, è un disco di transizione, visto che compaiono numerosi elementi che rispecchiamo lo stile dei Mercyful Fate dei tempi d’oro (5 canzoni erano state scritte proprio per i vecchi Mercyful, sto parlando di “The Candle”, “The Jonah”, “The Portait”, “Dressed in White” e “Haunted”). Non solo, tali canzoni sono il primo esempio di mini-concept del re : una madre, che gelosa della figlioletta, la uccide. Ne dipinge poi un ritratto, che però viene posseduto dall’anima della bimba, che tormenta la madre infanticida. Quest’ultima, per liberarsene deve compiere un rituale : bruciare il quadro su una particolare candela, recitando dei particolari versi tratti dal libro di Jonah. Altre song, “Halloween” su tutte, prendono un nuovo stile (anche nei testi, i fans del Re lo sanno) che sarebbe stato destinato a protrarsi in tutti i lavori successivi (e dove il marchio di Andy sarà letteralmente indelebile). Dopo questa breve quanto limitante descrizione stilistico – temporale passiamo a qualcosa di più preciso. Non abbiamo un vero concept (salvo il mini già citato) come nei futuri King Diamond, bensì una serie di pezzi che hanno in comune 2 cose : oscurità e una tecnica musicale semplicemente eccezionale. Difficile infatti a trovare qualche difetto nella preparazione tecnica dei 5 artisti. King si sa, piace o non piace (senza mezze vie), e gli stimatori lo trovano qui in una delle sue prove vocali più convincenti in assoluto, con una capacità di variare tonalità comune a pochissimi. Denner, da grandioso chitarrista di coppia qual’ è, trova in Andy un compagno straordinario, capace di sostituire e forse anche di migliorare il già splendido lavoro che faceva Shermann. Il risultato di questa unione è semplicemente da strabuzzare gli occhi, una pioggia di riff e assoli taglienti come rasoi, micidiali, ma che strizzano anche l’occhio alla pura melodia. Che dire invece della sezione ritmica? Timi è un po’ in ombra, come sonorità, rispetto alle 2 asce, ma il suo dovere lo svolge eccome, mentre Dee si conferma da subito, senza troppo bisogno di ambientarsi, come uno dei batteristi più potenti in circolazione, preciso e veloce in tutto. Le canzoni sono 9 (fino a 11 coi bonus), delle quali 5, come già detto, scritte ancora per i Mercyful Fate. E si sente subito. Urla, pianti, un diabolico discorso e un tetro ma seducente organo ci tendono infatti subito la mano nella tremenda “The Candle”. Tale sacralità (da pelle d’oca) viene presto bruciata da un micidiale riff e un maligno cantato, quasi interamente in falsetto. Grande pure l’assolo finale, primo segno dell’esplosione “Laroqquiana” (ma non dimentichiamo i 2 precedenti, eccellenti ed entrambi di Michael), e il cambio di giro a centro canzone, una ventata di freschezza al momento giusto. Identico discorso per “The Jonah”, mid tempo aperto in maniera addirittura morbosa per quanto pesante e malvagio. Jonah, pur diverso dalla candela, rimane comunque un signor pezzo, dotato di grandi cori e di un bellissimo riff che mescola classe, inquietitudine ed eleganza allo stesso tempo. Dopo “The Candle” e “The Jonah” arriva un altro “the…”, questa volta nelle spoglie di “The Portrait”, forse la canzone più ricca di elementi e difficile da seguire del lotto. A tratti rapida e da headbanging, a tratti lenta e grave, e sempre allucinata, The Portait è per me lievemente inferiore alle due precedenti esibizioni, rimanendo pur sempre su un livello altissimo (che cambi di tempo….). Discorso diverso per “Dressed in White”, cavalcata per la quale gli aggettivi si sprecano. Segnalo dunque solo la bella idea della chiusura improvvisa, di botto, e il terzo assolo, un mix “Mike, Andy, Mike, Andy, Mike” da infarto, sentire per credere. Giro di boa con la possente “Charon”, mid tempo che ha la peculiarità di esser il primo brano finora incontrato non composto interamente dal King. Sulla song sono ripetitivo, ennesimo riff spaziale, grande idea (Caronte che parla a un’anima errante) gran solo (belle le parti distorte), gran cantato (piuttosto ben variegato e mai variegato a caso, prima caratteristica che si ripeterà spessissimo in futuro), passiamo dunque avanti per arrivare a “Lurking in the Dark”. Lurking è semplicemente una delle mie song preferite sull’album, dotata di un riff non crudo come i primi ma che crea elettricità da tutti i pori (mi ricorda come sound, sebbene non c’entri nulla nel resto, la vecchia Evil). Bellissimi sono gli intrecci fra cantato e suonato (che vede un Mikky Dee in forma strepitosa, padrone della situazione come solo un grande sa essere), e le atmosfere che questi intrecci vengono a creare, davvero peculiari. Dopo una canzone “fenomenale” uno potrebbe anche rimanere deluso da quella dopo, e invece no!, perché i nostri ci mettono nel piatto “Halloween” semplicemente una delle prime 5 tracce dell’intera carriera solista del singer danese. Tutto qui è adorabile, il riff, di classe ma terremotante (sentitelo sull’ultimo live…), il ritmo, l’assolo, la voce, i testi, tutto : un must assoluto, in opinione di chi scrive. Siamo quasi alla fine, e dopo la brevissima ma lugubre strumentale “Voices from the Past”, ove la band dà un saggio di tecnica e melodia asservita alle tenebre, arriva a chiudere il vinile (o la musicassetta) la spietata “Haunted”, ultima di una lunga serie di capolavori. Haunted, per farla breve, unisce cambi di tempo improvvisi alle ritmiche di Halloween, a degli assoli che sono pura melodia per le orecchie, sentire per credere. L’unico difetto sta forse proprio nell’eccessiva ricchezza della song, che, come succede anche a “The Portrait”, forse alla lunga diventa claustrofobica e pacchiana, ma vabbè. Abbiamo detto quasi tutto, visto che il disco finisce qui. Solo un appunto riguardo ai cd. Questi, in diverse versioni, contengono delle bonus track, che sono “The Lake” nel cd originale (1986), “No present for Christmas” nell’edizione polacca (1994), e tutte e due nel remaster (1997). Tutte queste tracks non le descrivo (già mi son dilungato troppo), dico solamente che confermano appieno la qualità complessiva del disco, che se ancora non l’avete ancora capito è, come dire… fatale, vero e proprio cardine di una carriera da leggenda del metal, quale King Diamond è ormai diventato.
Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) The Candle
2) The Jonah
3) The Portrait
4) Dressed in White
5) Charon
6) Lurking in the Dark
7) Halloween
8) Voices from the past
9) Haunted

Bonus Tracks :
10) The Lake (nel cd dell’86, #11 nel remaster del ’97)
10) No Present for Christmas (versione polacca del ’94 e nel remaster del ’97)

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