Recensione: Father Shadow
The Unguided. Dieci anni di carriera, cinque full-length. Non male, per la compagine svedese formatasi nel 2010 e che, oggi, dà alle stampe “Father Shadow”.
Il genere? In linea… generale non è un’informazione così importante poiché è chi ascolta, sulla base del proprio retroterra culturale, a tratteggiare la sagoma che rappresenta ciò che fa suo. Come sempre, però, c’è l’eccezione che conferma la regola. Guarda caso, quello dei Nostri. Sì, perché identificano una foggia moderna, finemente evoluta nonché altrettanto abilmente cesellata, del classico death metal melodico.
Una foggia che ha un nome, anzi due: modern melodeath e/o modern metal. Alternativi nell’identificare un sound possente, pieno, carnoso, ma che con il death metal ha poco da spartire. Come dimostrano alcuni esempi quali Nodrama, Rise To Fall, The Stranded; legati in qualche modo al musicista/produttore torinese Ettore Rigotti, mastermind dei Disarmonia Mundi.
Tutto questo, per dare un’idea di un qualcosa di invisibile che fa della freschezza la sua caratteristica principale. Una freschezza che nasce da un utilizzo abbondante della melodia, dosata in misura maggiore rispetto alla tradizione di ciò che teoricamente dovrebbe essere più estremo. Certo, quando Richard Sjunnesson sciorina le sue harsh vocals – che fra l’altro pennellano leggermente di metalcore il tutto – il suono s’indurisce, diventando anche aggressivo (‘War of Oceans’). Tuttavia, non appena entrano in campo le clean vocals di Jonathan Thorpenberg, pure chitarrista, fioccano a profusione chorus spesso e volentieri deliziosi, per nulla stucchevoli (‘Childhood’s End’), e nemmeno dal taglio mainstream. E questo, in ordine a un sostegno musicale sempre e comunque dal dosaggio energetico mai trascurabile.
Alla fine sussiste sempre l’antitesi fra arcigna potenza e dolce melodiosità (‘Never Yield’), ma si tratta di un elemento meno caratterizzante rispetto ai noti ossimori che fondano i dettami del melodic death metal; nel senso che il quartetto Falkenberg riesce con facilità a bilanciare con buon talento le varie componenti del proprio sound senza oltrepassare i propri limiti stilistici. Circostanza, questa, che non deve stupire poiché esso è composto da musicisti di primo piano, peraltro prolifici in ordine a una produzione discografica di tutto rispetto. Elementi che consentono di disegnare a tratti spessi un marchio di fabbrica piuttosto singolare. Niente di trascendentale, questo deve essere chiaro, ma trattasi comunque di un qualcosa che mostra costantemente una sola faccia, che è quella che identifica univocamente la proposta dell’act nordeuropeo.
Il quale non si ferma a svolgere un compitino basandosi sulla solidità della propria struttura sonora. Al contrario, “Father Shadow” risulta composto da canzoni di medio/alto livello compositivo. Sia per quanto riguarda il rigore della forma di scrittura, sia per l’introduzione continua di idee atte a rendere interessante e piacevole ciascun brano del disco. In sostanza non ci sono riempitivi, fra la già citata ‘Childhood’s End’, opener-track, e ‘Gaia’, la closing-track. L’uso massiccio sia dell’elettronica, sia delle tastiere, aiuta senz’altro la composizione di tracce multiformi, palesemente diverse le une dalle altre seppure ubbidienti a quello che si può definire The Unguided-sound. Forse manca il colpo del ko, ma in fin dei conti non se ne sente la mancanza giacché gli episodi scoppiettanti e buca-cervello non mancano, come dimostrano ‘Crown Prince Syndrome’, ‘Stand Alone Complex’ e la ridetta, splendida ‘Gaia’, che vede la partecipazione di Erik Engstrand.
“Father Shadow” è un lavoro che sprizza colori da tutti i solchi, e per questo va apprezzato: guardare in un caleidoscopio è sempre qualcosa che ha un po’ di magia. Del resto i The Unguided, c’è poco da discutere, sono davvero bravi e consistenti, ideali complemento per un veemente ascolto di un LP ricco di esplosive armonie.
Daniele “dani66” D’Adamo