Recensione: Fear is a Cruel Master

Di Stefano Usardi - 11 Novembre 2022 - 10:00
Fear is a Cruel Master
79

Cominciamo subito col dire che “Fear is a Cruel Master”, quarto disco degli statunitensi – loro sono del New Jersey, trapiantati poi a Philadelphia – Ruby the Hatchet, è stata proprio una bella scoperta: il quintetto riesce nel difficile compito di suonare musica dalla potente carica rétro senza la fastidiosa puzza di stantio che si accompagna sempre alle uscite poco ispirate. Le vibrazioni che pervadono l’album si rifanno smaccatamente agli anni ’70, ma ciò nonostante “Fear is a Cruel Master” suona comunque fresco e moderno, unendo egregiamente il meglio dei due periodi in un amalgama potente e sensuale. Per chi non conoscesse i Ruby the Hatchet, prendete i primi Black Sabbath e sostituite Ozzy con Stevie Nicks dei Fleetwood Mac, modulando la pesantezza dei primi con schegge impazzite di psichedelia dal retrogusto pop e un’attitudine classicamente rock. Come tocco finale, aggiungete una solennità quasi sacrale che si fa largo di tanto in tanto e il gioco è fatto: otterrete un lavoro fascinoso e sbruffone che trova il suo principale punto luce nella fusione tra la voce di Jillian Taylor (assolutamente perfetta per il genere) e il vortice sonoro proposto dal resto del gruppo, che pur fungendo da ideale supporto alla frontwoman riesce comunque a ritagliarsi svariate occasioni per brillare di luce propria. Il livello compositivo di “Fear is a Cruel Master” si mantiene su ottimi livelli, col quintetto che dissemina piccoli tocchi di classe in ogni traccia per impreziosirne le trame già solidissime, donando loro una personalità ben precisa e identificabile.

Si parte subito a bomba con “The Change”, canzone diretta e strafottente che profuma di strade assolate e vento tra i capelli. I ritmi sono pulsanti ma senza esagerare, e permettono ai nostri di dare al pezzo la sua aura avvolgente e briosa mantenendo chitarre rombanti sotto il pelo dell’acqua. Con “Deceiver” il tasso di incombenza e perentorietà si alza, ma non tanto da perdere in immediatezza: il pezzo si screzia di elementi dilatati ed acquista un tono più vorticoso grazie alla sferzata di chitarre gemelle che si fanno largo nella seconda parte, sempre marcate strette dalla voce che, qui, si tinge di colori più sognanti. “Primitive Man” parte con una sfrontatezza blues che mescola sensualità ed improvvisi ispessimenti sonori più burrascosi. Ciò dona al pezzo il suo tiro serpentino, ammiccante, a sua volta screziato da rapide impennate hard n’ heavy. “1000 Years” abbassa i ritmi e la carica propulsiva finora incontrata per distendersi sui tempi dilatati della ballata ipnotica e solenne, velata di disperazione durante il ritornello enfatico. Il pezzo scivola su un tappeto hammond che gli dona il suo retrogusto hippie, sognante, per poi piombare in un vortice classicamente doom con l’entrata a gamba tesa delle chitarre che donano corpo ed incombenza alla sua seconda metà. Un attacco sornione apre “Soothsayer”, che in breve perde il suo profumo da jazz club anni ’20 e si sviluppa in modo assai più scandito. Il brano mescola un fare stradaiolo e saltellante con una coolness più consona al blues, insinuandovi sferzate più spesse nella parte centrale per donare al tutto una certa sostanza. Una melodia romantica distesa su tempi dilatati apre “Last Saga”, ballata carica di pathos in cui la cabina di regia vocale passa ad Owen Stewart, che verrà affiancato dalla solita Jillian nel prosieguo del pezzo. La traccia fa del coinvolgimento emotivo il suo tratto distintivo, passando da un inizio indolente e dall’atmosfera dimessa, vagamente nostalgica, a un progressivo innalzamento della carica drammatica nel finale. Esalazioni di prog rock mefistofelico si spandono copiose nell’aria appena si passa a “Thruster”, che suona una bella sveglia dopo il tono carezzevole della traccia precedente incedendo con fare orrifico e smargiasso. Le scorribande di hammond dettano il tono, sostenute dall’ottimo ed insistente lavoro di chitarre sulfuree, una sezione ritmica secca e propositiva e una voce suadente e tentatrice che, pur essendo sempre al centro della scena, sembra voler svicolare dalle luci della ribalta per lasciare che la musica faccia il suo lavoro. Il compito di chiudere il sipario sull’album è affidato ad “Amor Gravis”, pezzo determinato in cui il quintetto mescola ritmi insistenti e tesi a rallentamenti che, dietro al loro retrogusto arcigno, celano un fare più insinuante. L’improvvisa accelerazione a metà del brano scompagina le carte per un attimo, per poi tornare a dispensare melodie sulfuree fino all’enfasi del climax finale, che sfuma in una melodia sottaciuta a chiudere il tutto.

Come scritto in apertura, “Fear is a Cruel Master” è un ottimo tassello per la discografia dei Ruby the Hatchet: il quintetto statunitense ha confezionato un ottimo ritorno sulle scene, capace di far breccia in più di un cuoricino grazie al suo fare passionale e sincero, oltre ovviamente a doti compositive nient’affatto male, un’attitudine propositiva e un tiro azzeccatissimo.
Consigliato.

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