Recensione: Feel The Misery
Da As The Flowers Withers di acqua sotto i ponti per i My Dying Bride ne è passata tantissima, una discografia ricca di ottimi album, di qualche capolavoro e di pochi filler.
Dai vagiti primordiali di Turn Loose the Swans, ai gotici e decadenti ricami dei bellissimi The Angel and the Dark River e Like Gods of the Sun, passando per la cupa ed epica maestosità di The Light at the End of the World e l’eleganza struggente di The Dreadful Hours, e poi ancora i sottovalutati esperimenti di 34,788% Complete e la bellezza tout court dei più recenti Songs of Darkness Words of Light e A Line of Deathless King, poi il mezzo passo falso a nome For Lies I Sire, l’esperimento poco riuscito di Evinta, sino a giungere al malcapitato A Map of all our Failures.
Lungo la via del tramonto per molti, i My Dying Bride – all’attivo ormai da quasi trent’anni – hanno vagato come una vecchia e stanca signora in cerca di sangue da ingurgitare per poter rimanere in vita, sommersi in una miseria che si è concessa il lusso di guardarsi attorno e di divorare ogni cosa, anche la vena creativa dei nostri e di sparire nell’ombra. Ma prima o poi era lecito aspettarsi un vagito, un fiero ritorno in quell’elegante decadenza che aveva da sempre griffato la band inglese.
Bene, con Feel the Misery – titolo azzeccatissimo – i nostri si rifanno portavoce – almeno in parte – di quei sentimenti primigeni in seno alla band, descrivendoli con devozione e lucida disperazione come nel caso della toccante opener, nenia funebre e lascito struggente che Aaron Stainthorpe – leggendario cantante della band inglese – ha voluto fare come ultimo regalo al padre scomparso recentemente.
Il vero compito dei “nuovi” My Dying Bride sembra quello di ritrovare quella credibilità persa per strada negli ultimi anni, cercando di creare un filo logico che passa attraverso tutti gli album della band e direi che il compito è quasi del tutto riuscito.
Brano migliore del lotto è senza ombra di dubbio la splendida titletrack, che gira maestosamente attorno ad un incalzante riff, fra vuoti carichi di pathos e momenti opposti da leccarsi i baffi, una sorta di The Raven and the Rose estirpata della matrice black. Ottima anche la malinconia stampata sulle note di un pianoforte che risponde al nome di A Thorn of Wisdom e I Almost Loved You. Altrove il lavoro è svolto con devozione e professionalità, senza infamia e senza lode, come nelle lunghe To Shiver in Empty Halls, o Within a Sleeping Forest, che denotano un po’ di stanchezza anche nelle parti in growl di Aaron, che invece risulta molto più a suo agio quando è la drammaticità della sua voce pulita a dover uscire con prepotente ardore.
In conclusione un album tra alti e qualche basso che comunque non inficia sulla pienissima sufficienza che i My Dying Bride meritano, non solo per la splendida carriera e l’importanza che rivestono nel panorama metal in generale e doom in particolare, ma anche e soprattutto per la capacità che hanno avuto nel rialzarsi dopo qualche tonfo di troppo negli ultimi anni, la paura che finissero nel dimenticatoio scompare per ora…assieme alle note drammatiche di una miseria mai attuale come in questo momento storico.