Recensione: Feelings Are Good
In realtà non ce l’aspettavamo, ma dopo poco più di anno torna il “Robot Solitario” meravigliosa creatura del poliedrico (ed estremamente prolifico) John Mitchell. In quest’album l’artista è effettivamente più solitario del consueto, visto che l’unica spalla delle precedenti line-up resta l’ottimo Craig Blundell alla batteria, per il resto è tabula rasa. Con il precedente “Under Stars” Mitchell aveva completato la cosiddetta “Trilogia dell’Astronauta” e almeno in apparenza sembrava proprio che fosse la naturale fine del progetto Lonely Robot con l’agognato “back to home” del protagonista. D’altronde i molteplici impegni con Arena, Kino e Frost, sembravano non voler lasciar spazio al progetto solista di Mitchell. Ma è evidente che il nostro anfitrione tiene particolarmente alla sua proposta individuale e questo disco ne è l’assoluta conferma. Abbandonato il concept visionario dei primi tre album, con Feelings Are Good John Mitchell torna con i piedi sul pianeta Terra ed esplora temi personali, ci racconta di esperienze che in qualche modo hanno lasciato un segno nella sua vita sia nel bene, sia nel male. Se le tematiche, quindi, hanno preso una direzione diversa, la musica proposta rimane sostanzialmente fedele all’anima di Mitchell, ossia quel raffinato e sempre elegante neo-progressive che tanto ha dato (e sicuramente continuerà a dare) in termini di visibilità all’artista irlandese.
Trascurando quindi l’orrenda copertina, è buona cosa, armati di tanta sana curiosità, mettersi subito all’ascolto del disco che si apre con un’immancabile e breve opener. La song che dà il titolo al disco è una semplice e piacevole voce “robotica” che ci introduce nelle tematiche del disco, poi una rullata di batteria e siamo già trascinati da “Into the Lo-Fi”, in cui il ritmo serrato (e soprattutto un azzeccato refrain) vi resteranno in testa da subito. Bella composizione sicuramente, in cui ritroviamo l’artista John Mitchell a 360°. Dopo la spensieratezza del primo pezzo ci catapultiamo sulla tela di “Spiders” dove un riff di chitarra cupo e distorto accompagna un tema ostinato che si ripete per tutto il brano; il ritornello ha il compito di mutare lo stato “rabbioso” del pezzo in una melodia piacevole e pulita, che lascia spazio di nuovo alle distorsioni fino alla conclusione repentina del brano. Con “Crystalline” la musica diventa più emozionale, siamo infatti immersi in una delicatissima ballad con la voce di Mitchell in primo piano accompagnata da violini e pianoforte. La musica cresce nel finale diventando intensa e coinvolgente per poi scemare in un bel outro-solista di pianoforte. Sicuramente uno dei momenti più toccanti del platter.
La successiva “Life Is a Sine Wave” è la canzone più autobiografica di John Mitchell e la si può raccontare citando semplicemente alcune strofe del brano, davvero molto significativa: « We’re on the very edge / About to take the fall / Who said it was easy / To take your curtain call / I feign indifference / You sometimes crack / You show a glimpse when facing back / Life is a sine wave / So get on top / You’re fighting the shallows / With all you’ve got». [«Siamo sul limite, rischiando di cadere. Chi ha detto che era facile rispondere alla chiamata della ribalta! Fingi l’indifferenza ma a volte ti spezzi. Vedi un barlume quando guardi indietro perché la vita è un’onda sinusoidale, quando sali in cima stai combattendo le secche con tutto quello che hai»].
Seguono due pezzi, “Armour for My Heart” e “Suburbia”, con una struttura molto simile al secondo brano dove troviamo un ritornello melodico in antitesi con la “durezza” della strofa. Sono comunque due brani che si fanno piacevolmente ascoltare. Si torna invece su lidi più intimisti con la struggente “The Silent Life”. Pianoforte e archi introducono la voce di Mitchell che ci racconta quasi sussurrando la sua vita “day by day”. Un brano che viaggia al limite del pop ma sempre con classe e raffinatezza. Un synth spudoratamente elettronico e una voce ultra-filtrata introducono la successiva “Keeping People as Pets”, brano in linea con tutta la proposta del disco che mostra una bella grinta nei momenti conclusivi. “Army of One” ci accompagna verso la fine del disco con una forte carica hard-rock che si alterna a momenti di sola voce, pianoforte e chitarra acustica, per poi letteralmente esplodere con un Mitchell in ottima forma che mette a dura prova la sua ugola con un bel gorgheggio in falsetto sostenuto da una musica carica di strumenti e decisamente aggressiva. Tocca a “Grief Is the Price of Love” chiudere il full-length, una breve outro di circa un minuto e mezzo, sostenuta dalla sola voce di Mitchell e da un meraviglioso arpeggio di chitarra acustica. Per quanto possa sembrare, non è un semplice pezzo riempitivo ma una bellissima chiusura, pensata nei dettagli.
Bene, ora è il momento di tirare un po’ le somme. Per John Mitchell, scusate per i Lonely Robot, quattro dischi in cinque anni sono davvero un gran rischio, soprattutto in questa epoca dove scorre tutto talmente veloce che diventa facile dimenticarsi un prodotto sostanzialmente di nicchia come “Feelings Are Good”. Ma come suggerisce lo stesso titolo i sentimenti sono buoni, perché John Mitchell, ha messo veramente se stesso in questo disco e il prodotto finale è probabilmente il migliore delle quattro release dei Lonely Robot. Non sarà certo una pietra miliare del genere, ma quello che rimane è una sensazione di appagamento che solo i grandi artisti sanno dare.