Recensione: Feelings of Fury

Di Giuseppe Casafina - 7 Maggio 2017 - 12:20
Feelings of Fury
Band: Ostrogoth
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 1987
Nazione:
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90

Anno 1987. Trent’anni fa rispetto ad oggi.

Età dell’oro dell’heavy metal, anno di massimo splendore di qualsiasi sottogenere a tinte borchiate: gli Slayer erano nel loro momento di massimo splendore, il thrash tedesco era al top mentre acts come Possessed, Sarcofago e Sepultura estremizzavano proprio quel muro di grezzume sonoro tipico del thrash metal per delineare quello che sarebbe poi stato il (trend del) death metal, senza dimenticare a tal punto i Death, che proprio in quell’anno fatidico pubblicavano il fenomenale debutto “Scream Bloody Gore”. I Mötley Crüe erano nella loro fase di maggior successo commerciale mentre i Twisted Sister diedero l’addio alle scene con lo scialbo ed inoffensivo “Love is for Suckers”. E non finisce qui: I Maiden erano quasi sul procinto di inaugurare la loro fase progressiva con “Seventh Son of a Seventh Son” mentre i Priest celebravano la loro fase glam (il criticatissimo “Turbo”) con il live “Priest…Live!”…e poi…e poi…no niente poi dai, lasciamo stare, quanta roba succedeva nel 1987?

I Whitesnake addirittura lo celebrano questo anno, dando alle stampe il loro storico platter “1987” quindi, figuriamoci.

Il 1987 è forse l’anno d’oro per eccellenza della maturità del metal, ma ben pochi erano (o vennero) a conoscenza degli Ostrogoth, band belga di heavy metal che proprio in questo anno ricchissimo dal punto di vista metallico, davano alle stampe (su Ultraprime Records) quel’insieme di magma metallico incandescente di “Feelings of Fury”.

 

I am the samurai
Fight to live, not to die

 

Questi versi, ripresi dal brano ‘Samurai’, si adattano perfettamente a descrivere un disco quale “Feelings of Fury”: un condottiero che ha sempre combattuto per sè stesso, senza mai farsi troppo notare anche se, per via della gloria derivata dalle sue epiche gesta, avrebbe meritato molto ma molto di più. “Feelings of Fury” è un platter di portata immortale in grado di aver resistito a 3 decadi di mai troppo lodata immensità.

Ed è con questo spirito che oggi questo capolavoro andrebbe rivisto: bisognerebbe trascinarsi addietro con la mente al 1987, cosa che vien naturale ascoltando questi suoni incisivi e taglienti tipici del migliore heavy metal, per cercare di capire davvero come mai tale scempio sia potuto accadere. Nel 1987 gli Ostrogoth erano poco noti e questo è un dato di fatto: a detta di chi era presente firmavano anche concerti memorabili, ma per cause ignote ed astratte pare che il loro nome fosse sempre rimasto di nicchia, relegato al culto di pochi, veri affezionati. E pensare che dischi quali “Ecstasy and Danger”, “Too Hot” e soprattutto l’EP di debutto “Full Moon’s Eyes” erano platter assolutamente fenomenali…ok, “Too Hot” forse era assai meno fenomenale rispetto ai primi due scioccanti episodi, ma resta il fatto che si trattava comunque di dischi ampiamente al di sopra della media del periodo. Forse la ragione di questo insuccesso stava nel meccanismo stesso che rese gli anni ’80 così amati ed odiati in egual misura: vi erano i big, i pochi veri big, sotto le luci dei riflettori in quanto eletti dalle etichetta discografiche per portare danari nelle loro finanze grazie a quell’ormai indiscusso talento, mentre il sottobosco faticava sempre ad emergere. Ci si provava, si raggiungeva uno status di culto come già anticipato, ti guadagnavi i tuoi seguaci, ma poi finiva lì…il passo successivo era un gradino troppo grande da scavalcare, da lì in poi tutto diveniva mastodontico. La macchina del business aveva deciso: te eri fuori. Solo i Maiden potevano essere le divinità, loro erano la ‘next big thing’ mentre voi, povera band destinata al massimo ai palchi degli eventi di media portata (cosa che negli anni ’80 era l’equivalente pressoché totale del non contare mai quanto si dovrebbe), dovevate rimanere al vostro posto… Già mi immagino la reazione di un discografico anni ’80 nei confronti di questi simpatici belgi “…ehi amico, hai la tua discografia, hai i tuoi fans, suona per loro no?” …molto stimolante vero? Ovviamente le mie sono solo ipotesi, dato che un disco come questo andrebbe insegnato nelle scuole dell’heavy al pari di capolavori immortali di “Killers”, “Defenders of the Faith” o chissà cos’altro, mentre il massimo della fortuna a cui questo platter è andato incontro è stata una non troppo eccelsa ristampa della Mausoleum, con tanto di tracklist errate (il disco è stato ristampato nel 2002 assieme a “Too Hot” su un unico CD, peccato che la tracklist di quest’ultimo fosse sfasata di un brano rispetto al libretto) e booklet privo di testi ed estremamente misero.

Massimo onore alla Mausoleum ovviamente, ma mi son sempre chiesto il perché di una ristampa così approssimativa.

 

Un vero peccato, ma sempre meglio di nulla, come si usa dire a volte, perché un disco come “Feelings of Fury” oggi nessuno lo creeerà più, nessuno!

Nemmeno gli Ostrogoth stessi, per la semplice e chiara motivazione che quelli Ostrogoth, quella formazione degli Ostrogoth non esiste più: Rudy Vercruysse ci ha purtroppo lasciati per sempre nel 2015 (stessa cosa Hans van de Kerckhove, chitarrista fino al disco precedente, morto per problemi di cuore nel 1989), Juno Martins nessuno sa più che razza di fine abbia fatto, Sylvain Cherotti e Kriss Taerwe idem, ma soprattutto quell’ugola fenomenale di Peter De Wint (anche nei Crossfire, band con cui gli stessi Ostrogoth suonarono nello split “If It’s Loud, We’re Proud” del 1985, ed ingegnere del suono per acts del calibro di W.A.S.P., Lordi, i già citati Twisted Sister, Jeff Scott Soto, Glenn Hughes e molti altri), vero fiore all’occhiello del disco, pare scomparso dal giro dei performers musicali. Solo il batterista Mario Pauwels resiste, portando avanti una formazione degli Ostrogoth che dei veri Ostrogoth di un tempo, per le ragioni sopra accennate, ha solo il nome: lieto che siano ancora in giro comunque, se non altro perché così facendo forse si potrò finalmente rendere nota al pubblico la grandezza dei loro platter storici…

E del disco? Già, finora non ho parlato del disco, ma credo che non ce ne sia bisogno anche se…insomma, ogni singolo pezzo di “Feeling of Fury” ha un tocco felino e notturno, tutti pezzi dove ogni musicista dà il meglio delle proprie capacità strumentali in brani al cardiopalma. Provateci voi a scrivere delle progressioni melodiche tanto semplici quanto efficaci in grado di portare pezzi quali ‘Samurai’ e ‘Love Can Wait’ al livello di veri e propri inni del metallo. Il solismo chitarristico è fluido e pregno di realismo (nel senso che a volte, non solo nei soli, fuoriescono alcune piccole imprecisioni nelle performance in grado di enfatizzare quel tocco ‘umano’ che a molti platter storici del genere forse manca), caratteristica che porta ogni singolo aspetto di questo capolavoro verso palme di assoluta eccellenza compositiva. La freschezza e lo stato di grazia del rinnovato combo (molti elementi cambiarono rispetto ai dischi precedenti) la si intravede ampiamente anche nell’introduttiva ‘The Introduction’ (testo forse un po’ banalotto, ma vabbè soprassediamo) e nei tempi dispari di ‘We Are The Ace’ dove per l’occasione la band dimostra sonica perfezione in ogni aspetto anche nei momenti più solari e meno oscuri, mentre ‘The Hunter’ é un mid-tempo di classica tradizione ottantiana estremizzato nel cantato sempre spettacolare e fuori dalle righe di De Wint, qui in veste di ugola selvaggia e senza controllo, confermandosi così uno dei vocalist più sottovalutati della storia dell’heavy metal. Proseguendo, ‘Get Out Of My Life’ è un altro perfetto esempio del songwriting dei belgi mentre ‘What The Hell Is Going On’  è un blues rock granitico avvolto nelle tenebre con una pazzesca accellerazione nel finale…ma non finisce qui, perché anche il buon “Feelings of Fury” ci pone il suo masterpiece in chiusura: ‘Vlad Strigoï’ è una energiticissima heavy metal song infarcita di melodie chitarristiche dal gusto unico in grado di porre il trademark definitivo del combo allo scopo di segnare per sempre il loro nome nella storia della musica che conta, uno stile pregno di quel tocco sempre oscuro e vendicativo, epico e leggendario, degno dei migliori nomi dell’heavy.

E’ inutile dilungarsi ulteriormente in quanto, data la situazione particolare, certi dischi van scoperti più che descritti. Ora non vi è più scusa alcuna per permettersi di snobbare un lavoro di tale portata ed evitare di consegnarlo ai posteri. 30 anni e non sentirli…continua a combattere guerriero, prima o poi il tuo nome diverrà leggenda.

Tutti dovranno conoscere il tuo nome, il tuo testamento è tra questi solchi forgiati nell’acciaio.

 

Can you feel,
feel the power?

(Ostrogoth – The Introduction)

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