Recensione: Fifth Son of Winterdoom

Di Carlo Passa - 17 Novembre 2013 - 13:39
Fifth Son of Winterdoom
Band: Iron Mask
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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65

Quinto album per gli Iron Mask capitanati dal chitarrista belga Dushan Petrossi, noto emulo di Yngwie Malmsteen. A rafforzare le comunanze con lo svedese, per il secondo album consecutivo (dopo Black as Death del 2011) alla voce troviamo quel Mark Boals la cui carriera spiccò il volo proprio grazie al celeberrimo Trilogy (era il 1986).
Lo ammetto. Gli Iron Mask mi hanno sempre detto poco, in difetto di originalità e sempre perdenti nel confronto con Malmsteen. Tuttavia, Fifth Son of Winterdoom è un discreto disco di power heavy metal, con stille di epicità galoppante abbastanza ben dosate.
La band è in forma e molti pezzi risultano dinamici, freschi e non così banali: pregi non trascurabili, considerato il genere musicale proposto.
L’ugola di Boals è un marchio DOC dell’heavy metal: intonatissima, pulita, potente, riunisce in sé tutte le caratteristiche archetipali del genere. Petrossi, dal canto suo, riesce ogni tanto a smettere i panni extra-large del grande Yngwie, plasmando le proprie parti in base alle ragioni complessive delle canzoni, e non viceversa. La scrittura è generalmente valida sia a livello melodico che di arrangiamenti, a tratti davvero azzeccati. La produzione, infine, è di livello, riuscendo a valorizzare appieno sia i singoli strumenti che il risultato complessivo.
In vero, Back Into Mistery, il pezzo posto in apertura, non preannuncia niente di buono, soprattutto a causa di un refrain piuttosto moscio e di un assolo di chitarra e tastiere davvero stralunato e fuori contesto.
Anche Like A Lion In A Cage non promette molto. Dopo un inizio strumentale che più neoclassico e baroccheggiante non si può, ecco partire la strofa di una delle tante power song cavalcanti di Malmsteen. Lo ripeto: la strofa è esattamente quello che vi aspettereste da Malmsteen. Il pezzo riesce un poco ad affrancarsi dal pesante modello in zona bridge-ritornello, ma purtroppo l’assolo fa ripiombare il tutto nel plagio più becero e la canzone ne esce abbastanza male.
Finalmente Only One Commandment arriva a salvare il dischetto dal volo dal quarto piano. Trattasi di un mid-tempo cadenzato ed epico al punto giusto che richiama alcuni passaggi consimili degli Hammerfall. La canzone in sé non è particolarmente originale, ma è la prova vocale di Boals a valorizzarla senza dover ricorrere ad acuti fraseggi e limitandosi a fare alla grande il proprio compito.
La successiva Seven Samurai ruota più o meno sulle medesime coordinate di Only One Commandment, proponendo una buona melodia power epic nel ritornello, ma risultando in sostanza trascurabile.
La title-track, invece, è un pezzo molto buono. Dieci minuti di fierezza tipicamente metallica servita in dosi massicce: melodie che sanno di familiare, ma condite talmente bene da riuscire certamente meritevoli di più di un ascolto.
Più leggera è Angel Eyes, Demon Soul, un pezzo heavy-rock che ricorda gli Helloween più scanzonati e i loro consanguinei Masterplan. Niente di più, niente di meno.
Di Rock Religion è stato prodotto un video, benché non paia la canzone più rappresentativa e, in definitiva, migliore del lotto. Trattasi, infatti, di un pezzo aggressivo e dal buon mordente, ma privo della qualità che non difetta ad altri momenti dell’album.
Father Farewell, dedicata al padre di Petrossi, mancato un anno fa, è una buona ballad la cui linea melodica, in sé piuttosto scarsa, viene decisamente impreziosita dalla splendida voce di Boals. L’assolo di Petrossi richiama molto il Malmsteen delle ballad, uscendo impietosamente perdente dal confronto.
Segue Eagle of Fire e gli Hammerfall tornano a bussare alla porta. La canzone, comunque, si salva in virtù di un bel ritornello, che non mancherà di far felici i true metaller più conservatori.
In Reconquista 1492 Petrossi ritaglia per sé un lungo momento fatto di arpeggi neoclassici e riff tra l’epic metal e i Maiden di Fear Of The Dark. Il tempo rallenta e le melodie si dilatano. Per carità, l’originalità alberga altrove, ma la canzone è proprio bella.
Run To Me è fresca e dinamica, dotata com’è di un bridge che prepara benissimo allo scoppio di un ritornello del tutto azzeccato.
Infine, The Picture Of Dorian Grey è un pezzone power di quasi otto minuti davvero troppo banale. Evitabile.
Fifth Son Of Winterdoom si ascolta quasi sempre con piacere, pur nella consapevolezza della sua inconsistenza: un buon compagno di viaggio con il quale non avventurarsi in argomenti che vadano oltre al clima e al traffico.
Laddove Petrossi non gioca troppo a fare il Malmsteen risulta anche un buon musicista. Invece, nei momenti in cui vuole battagliare sul medesimo campo del suo illustre collega finisce con l’evidenziare le pecche di un tocco che manca della pulizia e del gusto esecutivo dello svedese.
La copertina, infine, non lascia dubbi sul contenuto del disco. Insomma, poche sorprese; ma non è detto che ce ne sia sempre bisogno.

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