Recensione: Fire it Up
Un percorso iniziato nel 2004, composto da 3 album all’attivo, numerose date in tutto il mondo tra cui la presenza ad importanti manifestazioni come il Soniphere, il Dowload Festival, il The Big 4, tour europei a supporto di realtà del calibro di Iced Earth, Suicidal Tendences, Five Fingers Death Punch, Metallica, Slipknot, Motorhead, Mastodon, Opeth, In Flames, Arch Enemy e molte altre.
Una mescolanza di influenze contagiano i Panic Cell. Nati in Inghilterra, hanno un sound che lungo la loro carriera ha sfiorato negli esordi un Thrash vicino ad Anthrax e Pantera per poi dirigersi con questo ultimo lavoro verso un suono più groove ed alternative, mescolando Disturbed e Black Label Society.
L’Inghilterra non è sicuramente patria del Modern-Metal e le contaminazioni americane si percepiscono. Sfumano significativamente l’aspetto compositivo e sono pure sparse a macchia d’olio nella loro discografia.
E questo “Fire it up” può di certo essere definito l’album “maturità” della band perchè evidenzia, non solo spunti interessanti e buon livello tecnico, ma un deciso cambio di rotta nella sonorità rispetto ad un passato più thrash ovvero “Bitter part of Me” del 2004 e “What doesn’t kill Us” del 2007, in cui consigliamo l’ascolto della canzone “Stare into oblivion”.
“Fire it up” è appunto l’album di chiusura della carriera della band sotto questo nome.
Prodotto nell’aprile del 2010 da Will Maya (The Answer, Breed 77) per Undergroove Records, si apre con quattro brani all’insegna del groove-metal alla Disturbed abbandonando decisamente, nei riff e nel sound, le proprie radici. Solo verso metà scaletta, con “To die for Love”, troviamo un leggero ritorno al modern-thrash, mentre “Jaded” denota una svolta sonora con schitarrate acustiche miste a riff alternative che portano in spalla una chiara influenza propria dei Black Label society.
Luke Bell, cantante che per timbrica (ma in questo lavoro più che nei precedenti) ricorda a tratti Zakk Wylde e troppo spesso David Draiman, esibisce una vocalità sporca, ma convincente che risulta essere il carro trainante della band; tutto il resto è ben supportato dall’ottimo Rob nelle ritmiche che palesa, più che mai, una base solida in “Down to the next Time”. Convincente il riff di chitarra iniziale di “Right here waiting”, riallienato alla “risonanza” dei brani d’apertura. “Forever” è sicuramente il pezzo più sperimentale e particolare del LP; lo possiamo definire una sorta di contenitore “esoterico” delle contaminazioni complessive della band inglese. “To die for Lust” è infine il pezzo che sintetizza l’anima dell’album: una semi-ballad apre le danze per poi adattarsi a tutto ciò che s’è ascoltato sino a questo momento.
Le premesse per essere una band di ottimo livello c’erano tutte e questo “Fire it Up” è, nel complesso,la più convincente e intensa fatica dei Panic Cell nonostante, soprattutto nelle linee vocali, sia molto filo-Disturbed.
La band non ha inventato nulla di nuovo. Ha invece amalgamato degnamente le influenze che più li ha colpiti portandoli dignitosamente verso quella strada che poteva sfociare in una discreta notorietà… purtroppo l’orizzonte era ancora un po’ troppo lontano!
I Panic Cell hanno quindi deciso di chiudere il loro percorso sotto questa identità, ma oggigiorno, se volete, potete rintracciarli cercando i Seven Deadly.
Alessandro Biondo
Discutine sul forum, nel topic ufficiale!
Tracce:
01. Burden Inside
02. UnBroken
03. Lie to Me
04. Splitting Skulls
05. To Die For Love
06. Jaded
07. Down to the Next Time
08. Black Juice
09. Right Here Waiting
10. Forever
11. To Die For Lust
Durata: 46 minuti ca.
Formazione:
Luke Bell: voce
Harjeet Virdee: chitarra
Nathan Wood: chitarra
Bobby Town: basso
Rob Hicks: batteria