Recensione: Fire Make Thunder
Sembra che gli OSI stiano diventando l’attenzione principale di Kevin Moore. Il tastierista ex Dream Theater e titolare del progetto Chroma Key ha, infatti, portato a quattro il numero di release di questa sua particolare creatura nata agli albori degli anni zero.
Unito al fatto che i Chroma Key sono in standby dal 2003, viene dunque da pensare che la mente del nostro sia ormai totalmente assorbita proprio dagli OSI. L’acronimo del gruppo sta ad indicare l’Office of Strategic Influence, una agenzia americana per la guerra al terrorismo, che oramai si spera sia stato chiuso.
Al suo fianco ancora Jim Matheos dei Fates Warning, con il quale Moore crea gli album della sua “band” solo via internet, incontrando in studio il suo compagno di viaggio solo per definire i dettagli finali di ogni parto, ai quali stavolta alla drum session ha collaborato Gavin Harrison dei Porcupine Tree. Oltre a questo, niente live.
“Fire Make Thunder” giunge a tre anni di distanza dal precedente “Blood”, offrendoci otto episodi per cinquanta minuti di prog abbastanza atipico ed ibridato. Si tratta infatti di composizioni piuttosto semplici e dal ritmo comunque molto lento, che mischiano le chitarre taglienti tipo Dream Theater al post metal degli Isis o dei Cynic e a certo alternative americano. Un nome che viene spesso in mente ascoltando “Fire Make Thunder” è, infatti, quello dei Deftones, o meglio, dei Team Sleep, sorta di super band che coinvolgeva alla voce Chino Moreno. Ma niente mani nei capelli!
Molto probabilmente questo fatto è dovuto alle atmosfere sospese e dilatate e alla voce di Moore che, in piena controtendenza col prog, ci offre un cantato grave, suggestivo e liquido, molto simile a quello di Moreno.
Atmosfere sospese, si diceva, che vanno a formare un disco assai oscuro e lento, come testimonia la scarna “Indian Curse”, tenuta in piedi da un giro minimale di chitarra acustica, la sognante “For Nothing”, o “Wind Won’t Howl”, con le sue tastiere gocciolanti in primo piano. Cinque minuti di puro valium contro il logorio della vita moderna che per atmosfera ricordano quasi una versione un po’ più colorata degli Antimatter o un po’ meno cerebrale dei sopracitati Isis.
Sicuramente il brano migliore del disco, qualcosa da pescare su youtube in mancanza di grana per l’acquisto.
Venendo a pezzi più chitarrosi e pesanti, le prime due tracce, “Cold Call” e “Guards”, sono due ottimi assaggi di metal alternativo e moderno, guidate da ritornelli ipnotici e ripetitivi (rispettivamente due parole e una frase ripetute quattro volte di fila).
Molto buona anche la breve “Big Chief II”, prossima ai Porcupine Tree dell’ultimo periodo nel mescolare chitarre rocciose a tastiere schizzoidi.
Chiudono i dieci minuti di “Invisible men”, sorta di riassunto del disco, ma fino ad un certo punto. Se, infatti, la prima parte si sviluppa sulle solite tastiere dilatate, il centro del brano si avvicina pericolosamente ai Katatonia più tenebrosi, e anche Moore si accosta in modo tutt’altro che velato a Jonas Renkse, prima di lasciar spazio all’unico vero assolo del disco.
Insomma, molta carne al fuoco che da origine ad una proposta molto derivativa e comunque originale, sebbene priva di punte qualitative degne dei titolari del progetto, escludendo appunto “Wind Won’t Howl”.
Se questa è la dimensione preferita di Kevin Moore, ben venga.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
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Line Up:
Jim Matheos – guitars, keyboards, programming
Kevin Moore – vocals, keyboards, programming
Gavin Harrison – drums, percussions
Tracklist:
01. “Cold Call” 7:10
02. “Guards” 5:03
03. “Indian Curse” 4:42
04. “Enemy Prayer” 4:54
05. “Wind Won’t Howl” 5:05
06. “Big Chief II” 3:04
07. “For Nothing” 3:18
08. “Invisible Men” 9:54