Recensione: Firebyrd
Pare proprio che Anton Belov sia il re Mida del metallo made in CCCP. Qualsiasi disco, qualsiasi progetto intraprenda l’artista di Člejabinsk, è oro colato. A chi non lo conoscesse, basta dire che il nostro è il mastermind dei Kauan, complesso nato come duo e divenuto ormai una band vera e propria. Complesso che, oltre a farsi notare per la scelta di scrivere le liriche in finlandese, si è messo in mostra grazie a sei album, uno più bello dell’altro, contraddistinti da 3 netti cambi di stile nel corso del tempo.
Ora, a dispetto di tutto questo, i Kauan rimangono una band relativamente poco conosciuta. Chissà poi quanti saranno a conoscenza del fatto che il Belov è pure titolare di un side project rispondente al nome di Helengard. Nella fattispecie, gli Helengard hanno diverse affinità coi Kauan. Sono nati come un duo (e lo sono ancora). La controparte del Belov è una leggiadra pulzella che canta, suona le tastiere e risponde al nome di Alina Belova – e qui mi parve in prima battuta lecito insinuare che sia la sorella. In realtà è la moglie. Alina Belova che peraltro, dopo l’omonimo debut del 2010, è stata inserita nei Kauan, contribuendo alla realizzazione di “Pirut” e “Sorni Nai”. Infine, linguisticamente parlando, le canzoni degli Helengard hanno titoli in inglese. Ma non si è ben capito perché, dato che tutto ciò che si può udire nei loro pezzi è strettamente russo.
Detto questo, il debut era proprio carino. A sette anni di distanza, gli fa eco il nuovo “Firebird”, disco che merita ben più d’un attenzione. Cominciamo a livello strutturale. Il dischetto infatti (35 minuti), si articola in 4 episodi, brani veri e propri, dalla durata relativamente ampia, contornati da un prologo, un epilogo e tre interludi occupati da voce narrante. Ora volendo essere proprio sinceri, il russo lo so abbastanza alla cazzo, quindi non mi imbarco in un’analisi dettagliata di quanto testi e intermezzi dicano. Però è sufficiente a capire che il concept tratta il mito della Fenice, connesso in qualche modo alla vita rurale e al ciclo delle stagioni.
Detto anche questo, la musica. Che rimane, al solito, a livelli altissimi. Trattandosi di pochi pezzi, può anche essere accennato un track by track, tuttavia, a livello generico, possiamo riassumere tutto in una sorta di Folk metal di ampio respiro con consistenti contaminazioni black. Il risultato è qualcosa di magari non innovativo, ma incredibilmente poetico. A cominciare da Fall rue (probabilmente il pezzo meno poetico dell’album), pezzo di groove raro nonostante i ritmi non siano particolarmente sostenuti. Pezzo dominato da orchestrazioni un po’ nightwish e un po’ Pirati dei caraibi e da un cantato cantilenante favoloso.
Autentica vetta dell’album però è sicuramente Vernal Dawn, 9 minuti affrescati da un flauto e dal clean di Alina, che disegna atmosfere languidi e sofferenti senza però snaturare l’anima black degli Helengard. E infine, ottima anche Summer Feast, dove la band abbina alla sua proposta il tipico folk russo festaiolo, senza però ridursi a proporre canzoni da vodka e osteria come sempre più spesso accade.
Chi ama i Kauan, troverà negli Helengard, dunque, un bel gruppetto di toni e sonorità già note, unite a composizioni d’ampio respiro, spesso solenni e spesso malinconiche. Pur truttavia, si troverà innanzi a una proposta comunque indipendente, molto più semplice e lineare, con melodie fantastiche. Un disco che sa di mattine brumose e di erba tagliata, un disco che andrebbe sentito la prima volta dopo aver letto “To Autumn” di Keats (quella che inizia con “Season of Mists”). Ad ogni modo, in una scena che sta sempre più degenerando alla ricerca di melodie tanto facili quanto banali, “Firebyrd” è soprattutto un disco che spiega molto bene cosa dovrebbe essere il folk metal.