Recensione: Firewind
Gradito ritorno sulla scena per i Firewind capitanati dal mitico chitarrista Gus G. che non ha certo bisogno di presentazioni. A tre anni di distanza da Immortals, ci viene consegnato il nono lavoro in studio e la speranza per chi scrive è di veder smentite le critiche che di album in album sono state mosse alla band ellenica, spesso tacciata di essere ad un passo dall’eccellenza senza mai raggiungerla.
Partiamo dal titolo: è sempre una scelta interessante quella di pubblicare un self-titled. A 18 anni dal debutto, chiamare il nuovo lavoro semplicemente Firewind rappresenta una dichiarazione d’intenti, magari un nuovo punto zero, una rinascita, magari un ritorno al passato, magari entrambe le cose. Seguendo un trend ormai consolidato, i Firewind si presentano con un nuovo membro dietro al microfono, Mr. Herbie Langhans, che vanta partecipazioni con Avantasia, Radiant e Seventh Avenue tra gli altri. La formazione inoltre perde il tastierista Bob Katsionis generando così un sound risultante che richiama un heavy metal quadrato al punto, senza troppi fronzoli e orpelli.
Il disco si apre con l’elegante intro acustico che ricorda i migliori Annihilator e “Welcome To The Empire” arriva diretta come una dichiarazione di guerra: dimenticatevi la narrazione metallara della seconda guerra persiana, questo è un eccitante mix di hard rock e power metal. Il ritornello contiene degli accordi che gli amanti della fusion chiamerebbero expensive e una linea vocale che difficilmente si stacca dalla testa dell’ascoltatore. La voce di Herbie è davvero una bella sorpresa: potente, epica e con la giusta aggressività che catapulta il power metal nel 2020. Mai scelta del vocalist fu più azzeccata: rispetto al defezionario Henning Basse, a mio parere uno degli elementi deboli di Immortals, con Herbie abbiamo una ventata d’aria fresca in un genere che troppe volte ha rischiato la saturazione e l’implosione. Una nota a parte per la sezione dell’assolo: forse dal grande Gus G mi sarei aspettato qualcosa di più esplosivo e meno scolastico, soprattutto nel primo assolo del disco, ma queste sono finezze da pelo nell’uovo. Non si perde tempo ed entriamo subito nella cavalcata di “Devour”. Le backing vocals nel ritornello sono un elogio agli anni ’80 e ancora una volta la voce non passa inosservata. La produzione di tutto l’album è cristallina ed è un piacere da ascoltare. Purtroppo riaffiorano gli echi delle vecchie critiche: ciò che viene proposto non è nulla di particolarmente sofisticato e mostra poca evoluzione rispetto a quanto già sentito.
“Rising Fire” è un brano pensato per un headbanging furioso, puro divertimento. Il ritornello è uno di quelli da cantare a squarciagola ai festival. Relativamente al testo, non ho potuto resistere dal sorridere notando che una band riesce ancora oggi a cavarsela utilizzando l’accoppiata «fire/desire», ma è ovvio che si è deciso di far prevalere il diretto al sofisticato e va benissimo così. “Break away” fa pensare immediatamente ai Rage di Peavy Wagner. Il brano funziona, come tutto il disco del resto, ma sempre di più l’orecchio comincia a sentire il bisogno d’altro. Molto d’impatto la sezione degli assoli anche se ancora scolastici. Contrariamente a quanto percepito nella opening track ci troviamo davanti a una perfetta esecuzione, che però non arricchisce di una virgola un genere che viene invece in questo caso standardizzato. Brano decisamente scuro “Orbitual Sunrise”, ma con un’apertura epica nel ritornello: la sezione ritmica è potente e precisa e nel sottofondo primeggiano dei vocal pad che farebbero invidia ai Manowar. Ciò detto, anche in questo caso non viene aggiunto nulla a quanto proposto e riproposto dai predecessori di Gus G e soci.
A questo punto l’album subisce un’impennata micidiale ed è il momento di “Longing To Know You”, una ballad con la B maiuscola, finalmente un momento di originalità stilistica. La versatilità di Herbie alla voce è sorprendente mentre gli arpeggi di Gus G sono eleganti e l’assolo è finora il migliore dall’inizio dell’album: qui traspare un senso per la melodia a metà strada tra Steve Lukather e John Petrucci con poche note ma d’effetto. Un trionfo. “Perfect Stranger” vince il premio per il riff più accattivante del disco. Come per “Longing To Know You” emerge il carattere, la potenza e lo stile tipico del fuoriclasse. Il ritornello è una goduria e la linea vocale ben studiata si sposa perfettamente con il riff; la chitarra di Gus G. è infuocata e ci regala un assolo pazzesco con il giusto mix tra neoclassico e contaminazioni blues. Un altro pezzo da cantare a squarciagola in un futuro in cui (chissà) potremo nuovamente partecipare tutti ad un Wacken Open Air. “Overdrive” ha un bellissimo riff iniziale. La band stessa cita il brano come una reminiscenza di Dio/Black Sabbath: ciò è sicuramente vero nella strofa ma il ritornello ha un che di “teutonico” che ricorda i migliori Edguy. I nostri ci concedono anche una bella sorpresa nel breakdown con un riff aggressivo che scorre inesorabile fino ad un assolo esplosivo.
“All My Life” è sicuramente più ruffiano sia musicalmente, sia a livello di testi. La band si assicura di toccare tutti i principali punti per non deludere i fan del genere: il riff studiato a tavolino, la ritmica serrata nelle strofe, l’assolo neoclassico e lo screaming vocal al punto giusto. Inutile dire che (senza comunque mai mancare di qualità) ci ritroviamo nuovamente nella fiera del già sentito. Si sfocia nel nostalgico, invece, con “Space Cowboy” che con il suo gusto retro dà l’impressione di essere la party song del disco e strizza l’occhio addirittura al glam/class metal con un sound che ricorda i Firehouse. “Kill The Pain” parte in quarta con un riff che non perdona. Si sente un richiamo thrash degli Annihilator senza però la loro vena geniale, mantenendo i piedi ancorati su territori sicuri e scolastici. Molto d’impatto il breakdown dove il nostro Gus G non intende lasciare il palco tanto alla svelta regalandoci una serie di assoli di intensità crescente.
La nona fatica dei Firewind si conclude così, improvvisamente, e la sensazione finale è quella di aver trascorso tre quarti d’ora molto piacevoli dopo i quali, tuttavia, non resta l’idea d’aver ricevuto una qualche forma di arricchimento, il che a mio parere distingue un buon album da un grande album. Firewind ha tanti pregi e rappresenta sicuramente un passo avanti da Immortals, rispetto al quale si sente una certa freschezza, ma proprio come per il passato sembra mancargli sempre qualcosa, il genio creativo inafferrabile.