Recensione: First

Di Fabio Vellata - 29 Novembre 2018 - 0:01
First
Band: Summer Storm
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2018
Nazione:
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65

Arrivano d’oltralpe i Summer Storm, band hard rock con (presunte) venature progressive fondata da Patrice Vigier, originariamente blasonato costruttore di chitarre ed ora musicista “capo” in un progetto tutto suo.

Provenienza decisamente atipica per uno stile che nel paese transalpino non vanta certo particolari tradizioni ne radici profonde. Il panorama da quelle parti ha sempre previsto per lo più proposte d’altro genere: molto rap, parecchia dance, grandi chansonnier, un po’ di pop. Di heavy e rock non molto. Qualcosa di bizzarro e fuori schema, magari pure d’alto rango (Gojira, Lazuli e Deathspell Omega sono roba di razza), ma di hard rock, in tutta onestà, ne ricordiamo davvero poco. Tolti i vecchi e logori Trust, ovviamente.

Proprio per questa ragione suscita un minimo di interesse un disco come quello dei Summer Storm, gruppo che viene presentato come imbevuto di sonorità classiche in ossequio ad un canone stilistico per lo più “vintage”, nemmeno troppo distante da quanto codificato negli anni da Deep Purple, Uriah Heep e Blue Oyster Cult
La prova dell’ascolto si rivela, in effetti, abbastanza indicativa e soddisfacente in tal senso: non un capolavoro, nessuna pretesa particolare, tuttavia un discreto esempio di hard rock / blues suonato con padronanza, in cui il termine “progressive” e per lo più una velleità di facciata non concretamente tangibile. 
Tutto giocato sui tempi medi – caratteristica che al termine si rivelerà a doppio taglio – “First” si prospetta come un album comunque piacevole e sincero nel proprio voler apparire un po’ demodé.
Elemento che, come previsto, si mostra quale punto di forza assoluto, è la qualità dell’esecuzione, territorio all’interno del quale i Summer Storm dimostrano di possedere valori ben oltre la media. Nulla a che vedere, insomma, con musicisti alle prime armi o sprovvisti d’esperienza: Renaud Hantson è un ottimo singer, conosciuto in patria per le molteplici partecipazioni a piece teatrali, mentre Pascal Mulot e Aurèlien Ouzoulias sono musicisti dal curriculum illustre attraverso il quale apprezzare collaborazioni di grandissimo prestigio internazionale.
Punto dolente che, purtroppo, non va di pari passo con la qualità dei singoli, è invece il songwriting, a tratti statico e non abbastanza evoluto tanto da potersi affrancare da quella che, talora, appare essere una modesta routine priva di grossi sussulti ed acuti.

Le canzoni si ascoltano, si “passano” senza fastidi o disagi: l’incisività però è un altra cosa.
Il “segno”, quello che rimane e permette di riconoscere e ricordare, magari non il gruppo, ma quantomeno il disco, non c’è. O per lo meno, non si rileva in modo distintivo e caratterizzante.  
Al termine del passaggio non rimane moltissimo se non una piacevole fragranza di sottofondo che ricorda sapori vintage ma non cattura al punto da attirare ad ulteriori e ripetuti ascolti.
Il che non è motivo di bocciatura tout-court: le canzoni tutto sommato scorrono, le sensazioni non sono malvagie, l’impressione è quella di un lavoro ben fatto, professionale e realizzato con cura a partire dalla confezione.
Inevitabile però un po’ di rammarico: con un arsenale di talenti così ben assortito era lecito aspettarsi qualcosa in più. Maggiori emozioni, qualche suggestione capace di rimanere più a lungo, un po’ di canzoni non solo inappuntabili sotto il profilo formale, ma pure forti di qualche idea destinata a rimanere impressa.
Un peccato, sinceramente: il proporsi di alcuni pezzi come la stessa “Summer Storm”, “Natural Born Lover” o “G.V.” lasciavano presagire esiti più efficaci, delineando i contorni di quello che è, a conti fatti, un prodotto valido solo a metà.

Intuizioni abbozzate ed incompiute; qualità tecniche non sfruttate a sufficienza; poca verve ed una reiterazione quasi ossessiva dei “mid tempos”, per una staticità di fondo che alla lunga può risultare tediosa.
L’impressione definitiva è quella di un disco e di una band dall’alto potenziale, reso però solo in piccolissima percentuale.

C’è n’è per una onesta sufficienza.
Nulla di più.

 

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