Recensione: First Disorder
L’Italia è una realtà multiforme a diversi livelli, sociali e folkloristici. Una dimensione eterogenea che investe anche la musica: infatti, se in superficie spadroneggiano esibizioni di scarso o nullo valore, la musica vera, quella con un’anima, vive ai margini del business, in un contesto rigorosamente underground.
Sebbene snobbato dai più, il panorama dell’hard’n’heavy italiano è vitale e palpitante, dove piccole band locali marciano animate dalla sola passione e dal desiderio di trasmetterla ai fan del genere. E di passione i bresciani Fnorder ne dimostrano molta con la loro musica e con i loro testi: formati da Paolo Boschi (voce), Dario Ghidini (chitarra), Danilo Di Natale (basso), Fabrizio Bettinetti (chitarra ritmica) e Alain Brambilla (batteria), i Nostri rilasciano questo autoprodotto, “First Disorder”, alternando brani in lingua inglese a canzoni in madrelingua.
Potrebbe sembrare una scelta discutibile, tuttavia, non si ha la sensazione di un lavoro disorganico, grazie al registro musicale che fa da collante track by track: un hard’n’heavy dai tratti sabbathiani, perfettamente enunciati nell’apertura “First Disorder”. Non si tratta, comunque, di un macilento doom piuttosto di una veloce carica heavy, ammantata d’oscurità e disagio esistenziale (senza eccedere in ritmiche aggressive tipiche del thrash o delle correnti più estreme).
La struttura del pezzo è compatta ed è sorretta da un rifferama pressante e torvo, ricco di groove. Come da tradizione, la linea melodica si accende in corrispondenza del coro e dei vibrati. Non manca il momento del guitarplay, che tralascia scale neoclassiche per concentrarsi su assoli sofferenti e brevi distorsioni. Questi guizzi chitarristici, ben intercalati in una struttura granitica, ci consegnano una buona opener, libera dai soliti rifacimenti maideniani.
Dall’inglese di “First Disorder” si passa all’italiano di “Mondo Dissolto”, metafora di una dimensione sognante di speranze e illusioni, che si dissolve al risveglio, riportandoci ad una realtà cupa e morente. Rimane tuttavia un messaggio di speranza nelle strofe finali, quasi ad incitamento di salvarsi da questo mondo votato alla distruzione. Dal punto vista prettamente strumentale, in “Mondo Dissolto” la sessione ritmica mantiene sempre un’indole rocciosa e belligerante, collocandosi tra la NWOBHM e il power metal statunitense degli Eighties. Il chorus è altrettanto statuario senza particolari fronzoli. Saturandosi su una struttura ripetitiva e non essendoci particolari divagazioni, il pezzo stenta a decollare, anche per l’assenza di un ritornello veramente arrembante. Peccato perché l’attitudine è presente e palpabile.
La successiva “Madness Light” emerge con un arpeggio lento e malinconico, per poi sfociare in roventi innesti della sei corde. Respiriamo atmosfere dimenticate, sature di NWOBHM. Breve ma suggestivo il bridge chitarristico.
“Piazza di Piombo” rievoca la strage di piazza della Loggia, avvenuta il 28 maggio 1974, un evento tragico che appare più che mai attuale ora, nella nostra società dilaniata dagli attentati e dall’odio. Il riff è carico di rabbia, crea un loop nerboruto e nervoso, circolare nel ritornello portante. Si percepisce grinta ed energia da tutta la band e il risultato è un brano che sa mordere e coinvolgere senza l’aiuto di anglicismi. Rimane, comunque, la curiosità per una versione anglofona…
L’ep si chiude con l’incalzante “Urlo nel Vento”, sempre con riff scuri e granitici in evidenza. Se la formula ripete sonorità già viste nell’album, con accordi concatenati e martellanti (tipici della scuola hard rock anni Settanta come Ufo e Budgie), rimane inalterato l’impatto sonoro al grido del titolo. Qualche variazione sarebbe risultata gradita: infatti, il rallentamento del solo è un’intuizione interessante da sviluppare appieno.
Un buon inizio
I Fnorder con questo esordio offrono una prova solida, sfoderando in alcuni momenti una verve tagliente. Il neo è, invece, quello di riciclare ritmiche tra le varie composizioni ma soprattutto si sente la necessità di valorizzare di più alcune intuizioni solistiche, in modo da completare e caratterizzare il marchio di fabbrica del registro, scardinando una formula di scrittura che appare talvolta un po’ statica. Si percepisce che c’è potenziale ma per esprimerlo è necessario evitare di imperniarsi sullo stesso riff dall’andamento reiterato, difetto sostanziale del songwriting.
Se, invece, si vorrà mantenere una struttura circolare, senza particolari cambi di tempo e soluzioni, risulta doveroso ravvivare alcuni ritornelli dall’andamento monotono.
In attesa di un full-lenght, vi invito ad ascoltare “First Disorder” anche solo per la forza che scuote le canzoni, un’energia che è parametro importante nella distinzione tra musica e quella che vorrebbe esserlo…
Eric Nicodemo