Recensione: First Underground Nuclear Kitchen
Un titolo originale e chiaramente esemplificativo, una copertina assolutamente anonima ed un artista dal talento sconfinato, intenso ed inarrivabile.
Quale il risultato? Come risponderebbero i latini, dando prova di antica saggezza nel trattare un interrogativo che contrappone fattori antitetici, la verità sta nel mezzo, in medio veritas.
‘First Underground Nuclear Kitchen‘, tredicesimo solo album del grande Glenn Hughes è, infatti, un prodotto di notevole fascino e ricercatezza, nuovamente indicativo dello status raggiunto dall’immarcescibile ugola del singer britannico. Tuttavia, questa volta, sembrano manifestarsi una serie di particolari che, una tantum, potrebbero spiazzare moderatamente i fan, deludendo qualcuno ma, al contempo, entusiasmando altri.
La sterzata verso lidi più morbidi ed ormai lontani anni luce dall’hard rock a cui il nome del celebre singer è da sempre legato, era nell’aria da tempo, già subodorata nelle sfumature comparse nel precedente ‘Music For The Divine‘.
Con ‘F.U.N.K.‘, il processo di maturazione del nuovo stadio artistico ha avuto definitivo compimento, portando Mr. Hughes ad abbracciare tonalità del tutto aliene a qualsivoglia velleità rockettara, per proiettarlo in quell’universo multicolore, soffuso ed assolato che prende il nome di funky-soul. Orrore e raccapriccio per alcuni, miele e balsamo per le orecchie di altri.
Non si confondano ad ogni modo gli appassionati sostenitori della “voice of rock”, reputando il proprio beniamino come una sorta di cariatide pronta per la pensione ed oramai destinato ad un pubblico troppo adulto per essere accostato all’immagine dell’icona rock. La grinta è sempre presente e la voglia di dispensare ritmo, coinvolgimento e verve non mancano affatto.
Sono i suoni ad essere mutati ed è la sensibilità ad essere divenuta maggiormente profonda e delicata, contribuendo a realizzare quella che può essere definita, con un paragone forzoso ed ipotetico, come una sorta di chiusura del cerchio o, se si preferisce, un ritorno alle origini.
Ai più attenti ed accaniti fan di Glenn, non sfuggiranno infatti, interessanti raffronti con ciò che il grande artista ha saputo produrre nella notte dei tempi, cogliendo sfumature che sanno un po’ di “Play Me Out”, “Four On The Floor” e “Hughes / Thrall”, epoche in cui i suoni si facevano meno rock per assumere connotazioni alquanto settantiane e dove l’anima più morbida ed edulcorata del singer inglese veniva a galla, sfornando capolavori come la sentita ed emozionante “Coast To Coast”.
“Satellite”, “Imperfection”, “Oil And Water” e “Where There’s a Will” offrono deliberatamente contorni al limite dello smooth jazz (ambientazioni in ogni caso non ignote al songbook di Glenn anche in periodi più recenti, come testimoniato da album come “Feel” e “The Way It Is”), che si fregiano di fiati e raffinate tastiere, in un menage molto sensuale, esaltato dalla sinuosa ed elegante voce di un interprete al solito perfetto in ogni passaggio.
Il blues – funky richiamato dal titolo, è poi ben presente ed espresso, spina dorsale dell’intero disco e di brani alla RHCP (Chad Smith è, anche stavolta, il batterista ufficiale) come “Crave”, “First Underground Nuclear Kitchen”, “Love Communion”, “We Shell Be Free”, “Never Say Never”, “We Go To War” e “Too Late To Save The World”, episodi di chiara matrice seventies che regalano sprazzi di sole e colori estivi, sempre mitigati da attimi ad ampio respiro, ideali trait d’union con le uscite precedenti del grande “funkmeister”.
L’esemplificazione di uno stile ormai divenuto meno esuberante e roccioso, a pieno favore di un atteggiamento più rilassato ed “adulto”, che potrà far storcere il naso a qualcuno, ma non perde un oncia in termini di talento artistico ed ispirazione.
Il profilo emozionale ed intimista di Hughes è quindi il soggetto di questo nuovo platter, episodio vagamente atipico in carriera, ma non per ciò meno interessante e privo di spunti, destinato a scontrarsi con alcune diffidenze iniziali, salvo poi rivelarsi ricco di grande fascino ed appeal con il procedere degli ascolti.
Un album sornione, che offre una serie di tonalità soffusamente estive e calde – perfette per giornate sui boulevard californiani e per situazioni da raffinato club notturno – pronto a sedurre e ad inserirsi “sotto pelle” con implacabile destrezza, non appena entrati in sintonia con il clima e le atmosfere che si diffondono lungo gli undici capitoli confezionati.
In un’epoca di grande riscoperta dell’hard rock, sembra strano vedere uno dei maggiori interpreti di sempre abbandonare in modo pressoché definitivo il genere, fedele ad una propria linea artistica refrattaria a qualsivoglia influenza esterna e, per questo, ancor più apprezzabile.
Per concludere, un disco che lascia aperte tutte le strade di valutazione, prestando il fianco a severe critiche da parte dei patiti dell’energia più diretta ma, al tempo stesso, per nulla sgradito agli antichi fan del maestro Glenn Hughes, abituati ai cambi d’umore di un artista da sempre al di sopra della massa.
Come di consueto in questi casi dunque, ad ognuno la libertà di scelta.
La mia opinione?
Ottimo come sempre…
Tracklist:
01. Crave
02. First Underground Nuclear Kitchen
03. Satellite
04. Love Communion
05. We Shall Be Free
06. Imperfection
07. Never Say Never
08. We Go To War
09. Oil And Water
10. Too Late To Save The World
11. Where There’s A Will
Line Up:
Glenn Hughes – Voce / Basso / Chitarre
Chad Smith – Batteria
Luis Maldonado – Chitarre
J.J.Marsh – Chitarre
George Nastos – Chitarre
Anders Olinder – Tastiere
Ed Roth – Tastiere