Recensione: Fist of the Seven Stars Act II – The Hokuto Brothers
Secondo capitolo della rock-opera targata Gabriels, virtuoso tastierista messinese, e incentrata sulla saga di Ken il Guerriero: “Fist of the Seven Stars Act II – The Hokuto Brothers” arriva a due anni dal primo capitolo e prosegue la narrazione degli eventi che vedono il protagonista Kenshiro Kasumi farsi strada nel mondo descritto dai fumetti di Buronson e Hara. Nella fattispecie, in questo capitolo facciamo la conoscenza, tra gli altri, dei miei personaggi preferiti della serie: Rey, Toki e Raoul. L’arco narrativo di questo Atto 2 abbraccia, infatti, le vicende che vanno dalla comparsa dell’Uccello d’Acqua di Nanto a quella del Re di Hokuto, passando attraverso le difficoltà incontrate dalla sorella di Rey, prigioniera dei Cobra, le querelle con Jagger e Amiba, l’assalto alla prigione di Cassandra e la liberazione di Toki fino ad arrivare alla comparsa del maggiore tra i figli di Ryuken. Ora, essendo io cresciuto negli anni ‘80, quindi a pane e Ken il Guerriero, mi sembra normale partire dal presupposto che tutti coloro che leggono sappiano già di cosa sto parlando (e come potrebbe essere altrimenti, giusto?), ma per i pochi, pochissimi casi di persone tornate da altri pianeti dopo lunghi rapimenti alieni o nate in tempi troppo recenti mi permetto di linkare la pagina Wikipedia riguardante uno dei pilastri assoluti della cultura di quel periodo. Prima di continuare mi si conceda di alzare il pollice per la copertina del lavoro, che ogni amante della saga riconoscerebbe in un millisecondo nonché netto passo avanti rispetto a quella (bruttina) del primo capitolo.
Come nella migliore tradizione delle rock–opera, anche questo “Fist of the Seven Stars Act II – The Hokuto Brothers” vanta una lunga lista di ospiti di cui il prolifico tastierista e compositore si circonda, elencati nel dettaglio nella scheda dell’album: una decina di cantanti e di chitarristi, cinque batteristi e cinque bassisti; l’unico punto fermo di questa girandola di strumentisti è chiaramente costituito dallo stesso Gabriels, all’anagrafe Gabriele Crisafulli, perno irrinunciabile intorno a cui si sviluppano le composizioni. Conseguentemente, la presenza delle tastiere risulta piuttosto ingombrante nell’economia finale di “Fist of the Seven Stars Act II – The Hokuto Brothers”, sebbene ogni strumento cerchi (con maggiore o minore successo) di ritagliarsi il proprio spazio. Un esempio su tutti le chitarre che tendono, in alcuni casi, a starsene un po’ in secondo piano, e anche se rispetto al primo capitolo (effettivamente più fiacco da questo punto di vista) il bilanciamento dei suoni è stato leggermente aggiustato, avrei preferito una resa sonora più corpacciuta, magari anche a discapito dell’eleganza. Come nel primo episodio, il genere proposto è un rock sinfonico, maestoso e raffinato ma anche piuttosto impalpabile; diversamente dal primo episodio, però, si nota qui un maggiore ricorso a melodie drammatiche, e anche la relativa varietà delle composizioni beneficia di questa accresciuta intensità. Ecco quindi che alle solite melodie eleganti e ariose che, da come si era capito dal primo capitolo, costituiscono la base per il progetto “Fist of the Seven Stars” e che ritroviamo sparse un po’ dappertutto, i nostri prodi musicisti affiancano passaggi più diretti e tracotanti, rallentamenti relativamente minacciosi o passaggi carichi del patetismo tipico delle vicende della saga. L’inizio è un po’ in sordina, nonostante “The Search of Water Bird”, tratti il personaggio di Rey (di certo il più figo della serie, e non osate contraddirmi perché sapete che ho ragione!) e la sua ricerca di vendetta: la canzone si dipana su ritmi lenti e scanditi, non privi di una certa opulenza, dilatati poi da una bella sezione strumentale che profuma di progressive. Toni elegiaci e rilassati si trovano anche nella successiva “Cobra Clan”, anche se qui si cerca di spingere un po’ di più su un certo trionfalismo. Melodie inquiete introducono “End of Cobra”, che si apre quasi subito a ritmi molto scanditi e dal sapore di anni ’80, in cui i cori acquisiscono un peso specifico notevole soprattutto nel ritornello. Le tastiere – Hammond donano al pezzo quel quid vintage che ne spezza un po’ la linearità, anche se mi sarei aspettato un po’ di violenza sonora in più per questo episodio (si torna sempre al presupposto che voi tutti sappiate di cosa si sta parlando, ok?). “I See Again” incede col pathos tipico della ballatona, alternando passaggi soffusi ad altri più drammatici, con la classica alzata di tono che si appropria della parte finale accarezzata dalla bella voce di Beatrice Bini, mentre con “Scream My Name” si torna sull’attenti. La traccia è leggermente più aggressiva delle altre (sebbene le tastiere si facciano qui davvero troppo ingombranti, coprendo il lavoro delle chitarre), e scandisce il tempo con ritmi lenti e quadrati. Solo nell’ultima parte le chitarre rialzano la testa pretendendo l’attenzione che meritano, giusto poco prima del finale che sfuma in “Miracle Man”, introdotta da una melodia più intimidatoria. Ecco finalmente qualche riff in primo piano, bisognava solo aspettare l’entrata in scena di Amiba! Il pezzo si destreggia bene tra ritmi marziali ed improvvise aperture melodiche, mantenendo la tensione iniziale per buona parte della sua durata grazie a scelte molto azzeccate. La successiva “I’m a Genius” si carica di una certa maestà, screziandosi poi di profumi settantiani durante il bell’assolo centrale, salvo poi tornare al trionfalismo in tempo per il finale. “Looking for Your Brother” innalza i ritmi e l’asticella grazie ad ottime melodie, confezionando una canzone diretta, frizzante e sentita in cui a farla da padrona è la trionfale voce femminile ottimamente sorretta da un comparto strumentale arrogante il giusto. Si prosegue sulla giusta via con l’ottima “Myth of Cassandra”, altro pezzo minaccioso e quadrato dal flavour coattissimo spezzato solo di tanto in tanto da fraseggi più distesi. Bello anche l’assolo che chiude il pezzo e accompagna alla più distesa “Reunion”, introdotta dalle morbide note di un piano. La traccia si sviluppa come la classica power ballad, dolcemente graffiante, in cui il gioco di voci contribuisce a tenere il tasso di patetismo entro limiti di guardia senza per questo limitarne la carica emotiva. Melodie mediorientali introducono “Legend of Fear”, in cui il tono della composizione si incattivisce di colpo. La canzone procede minacciosa per introdurre il maggiore dei fratelli, Raoul, mentre solo di rado il comparto strumentale si lascia andare a melodie meno che intimidatorie. Chiude l’album (beh, quasi) il trionfalismo spinto di “King of Fist”, ennesima traccia dai tempi quadrati le cui melodie sfarzose contribuiscono a creare il climax ideale per concludere degnamente questo secondo capitolo della saga. Oddio, per la verità ci sarebbe anche una bonus track, “Heart of Madness”, cover presa di peso dal lungometraggio di Ken dell’86 e che per la miseria mi fa’ venire il magone ogni volta che penso a cosa fa da accompagnamento: in realtà il pezzo perde un po’ della carica drammatica dell’originale, ma compensa il tutto con una nota di trionfo che non mi è dispiaciuta, chiudendo (stavolta per davvero) questo “Fist of the Seven Stars Act II – The Hokuto Brothers” con una discreta chicca.
Che dire, dunque, una volta terminato l’ascolto? Che “Fist of the Seven Stars Act II – The Hokuto Brothers” è sicuramente un album ben fatto: raffinato, scorrevole ed elegante; forse un po’ troppo leggerino dato l’argomento, ma che comunque si piazza su un gradino più alto rispetto al primo atto. A questo punto aspetto con una certa trepidazione il capitolo conclusivo, dato che, se il trend di Gabriels è quello di migliorare ad ogni lavoro, si preannunciano bei fuochi d’artificio…