Recensione: Flesh & Blood
Va bene la stima artistica.
Mettiamoci pure il valore storico.
Ok l’affetto personale e l’attaccamento. La proverbiale “partigianeria” che da sempre ammettiamo quale nostro limite.
Aggiungiamoci anche un filo di “sudditanza psicologica” (va di moda!) per un nome di peso, o meglio, fondamentale, per l’hard rock “tutto”.
Ma anche volendo essere cattivi, spietati, volutamente maligni o prevenuti, nemmeno questa volta riusciremmo a dir male di David Coverdale e dei suoi Whitesnake, giunti con “Flesh & Blood” al tredicesimo sigillo discografico in una carriera lunga e rispettabile, estesa sulla pantagruelica distanza prossima al quarantennale.
Ci saranno comunque sempre i detrattori, coloro ai quali un disco degli ‘Snakes – o meglio di David Coverdale – prospetterà la sensazione di un qualcosa di stantio, fuori moda ed oramai privo di significati. I critici “per partito preso” che, come accade con puntualità inossidabile quando si parla di grandi band dai trascorsi più o meno storici, tenderanno a cassarne qualsiasi nuova mossa, in ossequio allo scomodo confronto con le memorie di un passato sfolgorante ed impossibile da replicare.
Tant’è, ognuno sarà libero, come da prassi, di farsi un’opinione propria, ascoltando – si spera – con attenzione, quel che lo zio Dave ha voluto recapitarci questa volta.
Noi, abbiamo ed esprimiamo la nostra. Liberi da vincoli e costrizioni.
E la nostra impressione, come già accennato, non può in alcun modo essere negativa: inutile dilungarsi ancora senza centrare il punto.
Il nuovo disco dei Whitesnake è un buonissimo, vigoroso, godibile, cazzuto, sfavillante album di hard rock. Suonato bene, prodotto altrettanto, scritto con stile ed interpretato in maniera, quantomeno, dignitosa.
Proviamo ad andare oltre. Parliamo dei difetti e dei limiti.
Quali?
Insomma…i soliti.
Quelli che, da qualche tempo a questa parte, attanagliano i progressi dell’immane “serpente bianco”. Sarebbe insensato, ovviamente, negare l’evidenza offerta dalle corde vocali di Coverdale, non più vellutate ed ammalianti come ai tempi d’oro.
La prestanza vicino alla perfezione di linee come quelle di “Slip of the Tongue“, “1987” e “Slide it In“, quel misto di aggressività luminosa, beffarda sornioneria, setosa ferocia e fascinosa arroganza si è un po’ spento, lasciando spazio ad una versione meno elegante, meno sexy, meno profonda…
Ecco, “meno”.
Pur mantenendo un timbro inconfondibile, la voce di Coverdale sembra aver perso un po’ di ampiezza e versatilità, è meno brillante, per quanto possa comunque mostrarsi sempre sicura e risoluta. Appare ancora un bel sentire sui toni bassi, mentre strozza parecchio sugli accenti più alti. Non al punto da stonare, ma da mostrarsi meno (appunto) dominatrice, vigorosa e gagliarda.
Valga un esempio su tutti: le battute iniziali della comunque bellissima ballad “When I Think of You”, offrono un Coverdale sempre ammiccante nell’interpretazione, però meno sicuro del solito. Non lo definiremmo “calante”, ma quasi…
Ma il discorso può essere esteso grosso modo all’intero album: quando rimane sui bassi è ancora maestoso. Nel momento in cui le tonalità si alzano, la voce si fa parecchio gracchiante (ascoltare la title track, è ulteriormente esemplificativo), per quanto sempre carica di una personalità che, in un modo o nell’altro, non scomparirà mai.
È risaputo, lo zio Dave nel corso degli anni ha fatto un uso smodato del suo talento, a volte abusandone senza ritegno. Il risultato è che ora, alla soglia dei sessant’otto anni, un po’ di smalto si è perso per sempre.
Nonostante tutto però, l’inconfondibile “whispers and screams” è ancora la pietra angolare dello stile di canto di mr. Coverdale, quello peculiare ed esclusivo per cui verrà ricordato in eterno, al netto di quelle che possono e potranno essere le defaillance della parte conclusiva della sua carriera.
E i pregi?
Molti di più, onestamente, molti di più.
Un songwriting, condiviso con i chitarristi Reb Beach e Joel Hoekstra, che manda a regime una serie di brani “100% Whitesnake“, energici, grintosi, solari, ricchi di passione e vitalità. Quel modo di suonare hard rock che, a detta di chi scrive, nel suo riassumere in un’unica soluzione anni settanta ed ottanta, è stato e rimane il più bello e coinvolgente possa esistere.
Classe, tantissima. Energia, a fiumi.
E poi, le chitarre! Se il punto debole degli ‘Snakes 2019 è in parte la voce, il vero elemento di forza sono proprio le chitarre dei già citati Reb Beach e Joel Hoekstra.
Un commando affiatatissimo che macina riff a ritmo continuo, sparando a tutto volume accordi che spaziano dal blues, al rock, passando per AOR e heavy, capaci di marchiare ogni brano con un tocco unico tale da renderlo godibile ed incredibilmente longevo.
Infine, le canzoni.
“No fillers, just killers”, cita il proverbiale detto, tanto caro a David Coverdale. Ed in effetti, le canzoni buone su “Flesh & Blood” sono invero parecchie. Si parte dalla pattuglia delle quadratissime “Good To See You Again”, “Shut up and Kiss Me”, “Trouble is You Middle Name”, “Get Up” e “Flesh & Blood”, per passare al blues elettrico di “Hey You” e “Well I Never”, ai toni romantici, bucolici e zuccherosi ben evidenti in “When I Think of You” e “After All”, finendo con i momenti migliori, riassunti in quattro piccoli capolavori degni dei migliori ‘Snakes, intolati “Gonna Be Alright” (pezzo che avrebbe ben figurato su “Slip of the Tongue”), “Always and Forever“, “Heart of Stone” (Blues notturno di grande eleganza) e “Sands of Time”, quest’ultima, traccia conclusiva che come già accaduto in “Forevermore” omaggia in qualche misura gli eterni Led Zeppelin.
C’è buona varietà di atmosfere e sensazioni.
E, cosa rarissima in tempi inflazionati ed impersonali anche in ambiti musicali come questi, non ci si annoia praticamente mai.
Varrebbe la pena di spendere due parole anche per il resto della band, ovviamente: ma ci limitiamo ad accendere uno spotlight sul solito Tommy Aldrige, il vero alter-ego di Coverdale che, pure in quest’occasione, offre il meglio di se ovunque sia chiamato a menar fendenti.
Riassumendo una disamina che ci auguriamo abbastanza esauriente, il complesso è, in buona sostanza, quello che si profila ogniqualvolta accada d’imbattersi in un album dei Whitesnake.
Si parte dubbiosi, si pensa di beccare la cantonata, si spera di non rimanerci troppo male. Ma alla fine si termina l’ascolto con un sorriso, perché, nonostante tutto, quello che si è udito è stato piacevole e gratificante. Magari un pelo nostalgico, ma ugualmente capace di suscitare emozioni mescolate ad un senso di affetto e riconoscenza che rendono l’esperienza comunque significativa.
“Flesh & Blood” non sarà un prodotto perfetto, alcuni potranno affermare che, in fondo, si tratta sempre della solita roba. Ma è un buonissimo – a tratti ottimo – disco hard rock, al 100% un album dei Whitesnake, senza compromessi ne occhiolini alle mode, confezionato con quello che è il potenziale massimo consentito alla band allo stato attuale.
Un cd che si ascolta più volte in scioltezza e piace quasi istantaneamente.
Mica poco, dopo quattro decadi di musica!
Insomma, ci abbiamo provato ad essere cattivi ed intransigenti. Ci siamo messi d’impegno, cercando di mettere da parte anche il debole che coviamo da sempre per Coverdale e gli ‘Snakes.
Ma è tutto inutile, alla fine vince sempre lui: lo zio Dave ci ha fregati anche stavolta…