Recensione: Flesh Requiem

Di Daniele D'Adamo - 1 Novembre 2024 - 0:00
Flesh Requiem
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Come un treno inarrestabile, il geniaccio di Rogga Johansson continua a produrre musica senza soluzioni di continuità, impegnato in mille e più mille progetti. Fra di essi, sicuramente uno dei più importanti in quanto a notorietà sono i Paganizer che, con “Flesh Requiem“, raggiungono il numero tredici in quanto a LP pubblicati, senza contare una quantità spaventosa di EP, split, compilation e chi ne ha più ne metta.

A questo punto sorge spontanea la domanda: «Ma non sarà tutto uguale, ciò che viene composto a profusione da Johansson?». La risposta potrà sorprendere poiché è assolutamente negativa. Lungo la sua lunga strada, difatti, la band svedese ha via via affinato la sua proposta musicale, arrivando sempre più vicino al nucleo del concetto di swedish death metal.

Certo, i precedenti “The Tower of the Morbid” (2019) e “Beyond the Macabre” (2022) non erano molto distanti, in termini di pacchetto complessivo comprendente stile, sound, brani, testi, ecc. Tuttavia, in “Flesh Requiem” si avverte un filo di aria nuova, un leggero cambio di direzione, tali da distanziare il presente lavoro da quelli prima citati. Un qualcosa in più che prima non c’era e adesso c’è.

E questo qualcosa, a parere che chi scrive, è un’interpretazione del death metal meno rigida. Più snella in un sound che mostra le prime gemme di un sottile cambiamento. Il che facilita il songwriting, davvero buono nella definizione di uno stile che ha pochi rivali in tema di metal estremo, e nella costruzioni delle canzoni, più varie, toste e piacevoli da ascoltare.

Ora, quanto sopra non significa che i Nostri siano diventati di facile ascolto. No. Tutt’altro. Pestano sempre come dannati producendo un’onda d’urto dall’alto contenuto energetico che, nei momenti più intensi in termini di velocità pura (“Hunger for Meat“), innesca la trance da hyper-speed grazie al mostruoso attacco dei blast-beats. Un sound aggressivo, feroce, che non mostra mai nemmeno un secondo di fiacca (“Viking Supremacy“).

Accanto alla furia degli elementi, anzi in contrasto a essi, spunta qua e là qualche segmento di melodia, altrove assente, sì da creare la famigerata antitesi fra rudezza e dolcezza (“World Scythe“). Non c’è nessuna concessione ad altro che sia il growling stentoreo e modulato di Johansson, quindi niente clean vocals e cose del genere. Melodia dura, nella quale si piantano come saette assoli brillanti nonché armonici (“The Pyroclastic Excursions“).

Da rimarcare il nuovo chitarrista, Dennis Blomberg, che coadiuva il ridetto Johansson nelle fasi sia ritmiche sia soliste. Un aiuto di non poco conto, che si percepisce subito all’orecchio con il micidiale riffing che tiene su l’opener-track “Life of Decay” ma soprattutto “Meat Factory“, il cui pazzesco main-riff scoperchierebbe un carro armato per una soddisfazione uditiva quasi impareggiabile, almeno per gli amanti del genere.

Nessun timore, inoltre, per chi temesse una diversificazione eccessiva dagli stilemi di base dello swedish. In effetti ci sono attimi in cui ci si avvicina al death metal puro ma sono del tutto ininfluenti se calati nel contesto generale del disco. E questo poiché si riconoscono facilmente le song ritmate da quei quattro quarti strascinati che contraddistinguono buona parte del death scandinavo d matrice old school. Il quale contribuisce anch’esso a formare la foggia musicale che permea “Flesh Requiem” anche se, giova ripeterlo, il combo nordeuropeo è allineato ininterrottamente a ciò che deve avere un progetto per essere definito swedish death metal.

Alla fine non c’è dubbio: i Paganizer hanno compiuto un passo in avanti in termini di qualità tecnico/artistica. Dato atto che la band è costituita da elementi di primo piano, con conseguente abilità esecutiva di livello professionale, si evidenzia come, finalmente, è presente quel quid in più che agli altri manca, come nella hitSuffer Again“.

Avanti così!

Daniele “dani66” D’Adamo

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