Recensione: Flex Able
L’ascolto di un disco di Steve Vai può essere paragonato ad un immaginario viaggio a tappe lungo ogni angolo (anche il più remoto!) di una chitarra. La chitarra “vivisezionata” con l’ausilio della musica: questo è il compito che sembra prefiggersi Steve Vai, dunque. Lo ha fatto negli anni di militanza nella band di Frank Zappa, come negli Alcatrazz, nella band di David Lee Roth, ma soprattutto nei suoi lavori da solista.
Il primo “Flex-Able”, datato 1983 e qui oggetto di recensione, ne è emblematico esempio. In questo disco, primo episodio di una ventennale ricerca stilistica e strumentale sempre più raffinata, sono raccolti (quasi in forma di “appunti”) spunti e idee a volte racchiusi nella classica “forma canzone” e altre volte “dilatati” in suites dall’apparente assenza di senso compiuto. Nel dettaglio si tratta di materiale scritto dal “chitarrista alieno” lungo un arco di tempo che va dall’aprile 83 al novembre dello stesso anno nello studio privato del famoso guitar hero il quale ha provveduto anche alla produzione del platter.Partiamo dalla copertina di questo lavoro. Di questa sono disponibili due versioni molto diverse: una più “enigmatica”, raffigurante un cuore tirato da un’estremità come se fosse fatto di plastica; un’altra che ritrae, più semplicemente, il nostro nell’atto di suonare la chitarra. Menzione importante meritano, poi, i tanti ottimi musicisti che hanno preso parte a questo progetto: Bob Harris, Stuart Hamm, Scott Collard, Chris Frazier, Chad Wackerman, Paul Lemcke, Irney Rantin, Ursula Ryven, Greg Degler, Larry Crane, Pia Maiocco, Peggy Foster, Pete Zeldman, Billy James.
Il primo brano “Little Green Man” apre nel modo più insolito il disco. Il tema fondante della song è ripreso da quello, più famoso, presente nel film “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (pellicola firmata da Steven Spielberg) e nel suo sviluppo sembra ispirato direttamente dal “padre” Frank Zappa. Forse per questa traccia sarebbe più appropriato coniare il termine “work in progress song”, visto il lavoro qui svolto. La successiva “Viv Woman” mette in primo piano la chitarra elettrica. Qui Steve Vai si prodiga in un riff molto accattivante sul quale si stende un lavoro per basso (opera del buon Stu Hamm) davvero pregevole. In più si aggiunge una discreta sezione fiati che si aggiunge al resto degli strumenti poco prima dell’assolo di Vai. Proprio quest’ultimo, come al solito di pregevole fattura, chiude infine la song.
“Lovers are crazy” è una song dai tratti romantici grazie ad un riffing quasi “sussurrato” da leggere pennate di plettro. Alla parte strumentale fanno da contrasto le lyrics che sono ironiche creando, di fatto, un originale paradosso. La seguente “Salamanders in the sun” si fonda su tutt’altra atmosfera rimandando, vagamente, a certi esperimenti di Mr. Zappa. Il lavoro del chitarrista alla chitarra è molto particolare in questa traccia, poichè il riffing spesso e volentieri è giocato quasi interamente su dissonanze non per questo meno piacevoli.
“The Boy/Girl song” è un gradevole momento che permette a Vai di allargare l’orizzonte musicale finora esplorato per lanciarsi in una song semiacustica nella quale la centralità è affidata alle vocals.
Con la successiva “The Attitude Song” il chitarrista alieno da il meglio di se, fornendo ottima prova sia nelle ritmiche sia nella chitarra solista. Il riff portante è abbastanza sostenuto, vero trascinatore degli altri strumenti che sembra quasi si rincorrano l’uno dietro l’altro in un’entusiasmante “cavalcata sonora”. Bellissimo, come se non bastasse, l’assolo che compatta la forza d’urto del brano. “Call it sleep”, settima song del platter, è l’esatto opposto della precedente song sviluppandosi lungo lievi e delicati accordi di chitarra. Le pennate di plettro di Vai sembrano ritmare una dolce ninna nanna con note sospese in un immaginario “limbo sognante”. La quiete viene però, improvvisamente, interrotta dall’irrompere di un assolo davvero molto bello e ispirato che dona al pezzo ulteriore godibilità. In chiusura la song riprende la via maestra del sound morbido e suadente della prima parte del brano.
“Junkie” è un canzone “in crescendo” che si giova della forza espressiva della voce di Bon Harris che interpreta linee vocali piene di pathos. Verso il finale del brano si inserisce, poi, Steve che con un assolo molto particolare quasi “sospende” il brano lungo un’atmosfera lisergica che è spezzata da un finale che riprende il tema inziale del brano (il tutto, però, declinato con ulteriori varianti armoniche). Le ultime tre tracks (“Bill’s private parts”, “Next stop earth” e There’s something dead in here”) possono essere considerate le più sperimentali di tutto il disco. In questi due pezzi, a tutti gli effetti, possiamo notare uno stravolgimento totale della classica “forma canzone” il tutto in un alquanto estremizzato omaggio al vero padre artistico del guitar hero ovvero Frank Zappa.
In conclusione possiamo affermare che questo album sia il primo di una lunga serie di “viaggi attraverso la musica” di cui “la sei corde” ne è impareggiabile mezzo di trasporto. Avere questo disco potrebbe illuminarvi su quanti universi inesplorati vi siano anche nella musica.
Tracklist:
1. Little Green Men
2. Viv Woman
3. Lovers Are Crazy
4. Salamanders In The Sun
5. Boy/Girl Song, The
6. Attitude Song, The
7. Call It Sleep
8. Junkie
9. Bill’s Private Parts
10. Next Stop Earth
11. There’s Something Dead In Here
Bonus tracks (nelle versioni ristampate)
12. So Happy
13. Bledsoe Bluvd
14. Burnin’ Down The Mountain
15. Chronic Insomnia