Recensione: Flowers At The Scene
Davvero un’ottima uscita l’ultimo album solista di Tim Bowness, undici brani di puro art rock con rimandi al miglior prog. atmosferico e ai Pink Floyd dell’era Roger Waters. Il compositore inglese originario del Cheshire (la patria dello Stregatto) continua il suo percorso sonoro intessuto di raffinata eleganza minimalista e lo fa riproponendo il suo timbro vocale intimista e onirico. L’album è ben curato, a partire dalla copertina: dopo quella iperdettagliata di Lost In The Ghost Light, l’artwork di Flowers At The Scene è un concentrato di poesia ed essenzialità, un tocco di poesia che fa capire con chi ci stiamo confrontando. Bowness come suo solito si avvale, inoltre, della presenza di una dozzina ospiti di prestigio assoluto – tra i quali Peter Hammill (Van der Graaf Generator), Jim Matheos (Fates Warning, OSI), Colin Edwin (Porcupine Tree) e l’amico di una vita Steven Wilson (compagno di viaggio con i No-Man) – senza per questo snaturare la coesione della propria musica.
L’album, infatti, è breve ma intenso e si compone di undici pezzi per un totale di quaranta minuti di musica magnetica e ipnotizzante. S’inizia con la movimentata “I Go Deeper”, con un drumwork icastico e atmosfere subito refrigeranti. Si può dire che iniziare l’ascolto di Roses At The Scene è evadere dalla realtà in modo pressoché istantaneo. Bellissimi gli arrangiamenti d’archi in “The Train That Pulled Away”, brano che vede nella seconda parte di minutaggio alcune asprezze interessanti. L’apporto di Jim Matheos in “Rainmark” si traduce in un assolo che s’incastona splendidamente all’interno di un altro brano ben arrangiato, con anche alcune note di tromba. In quarta posizione troviamo uno degli apici emotivi del platter. Si tratta di un pezzo al chiaro di luna à la “Comfortably Numb” (anche se il paragone è ardito), sebbene siano assenti parti di chitarra elettrica e tutto si giochi su un minimalismo toccante, complice il figlio di Steve Howe, Dylan Howe, il quale scandisce un ritmo dimesso che vuol rendere mimeticamente il pianto di chi vede il proprio matrimonio ormai sfumato per sempre. E arriviamo in prossimità al giro di boa con la title-track. Ritroviamo il chitarrista dei Fates Warning e al basso David K Jones, tutto scorre senza forzature, pura poesia. Per dare un po’ di mordente all’album servirebbe ora una song più oscura e grintosa, e, neanche a dirlo, la seguente “It’s The World” è un highlight da non perdere. Oltre a Matheos dialogano tra loro Steven Wilson e Peter Hammill: il risultato è un brano tirato dalle sonorità acide che si sposano con l’ugola gentile di Bowness, il quale rivaleggia nuovamente con i giganti Pink Floyd. Dopo questo exploit, “Borderline” riporta l’album su binari sonori meno estremi. Ricompaiono parti di tromba (con sordina), pianoforte, il tocco di Howe alle pelli e David Longdon (Big Big Train) impreziosisce la traccia. “Ghostlike” è il pezzo più lungo in scaletta e nei suoi cinque minuti di durata propone sonorità vagamente esotiche e metafisiche (vengono in mente gli IQ come termine di paragone). Dopo la delicata “The War On Me”, siamo arrivati quasi all’epilogo del full-length. Ci aspettiamo un ulteriore crescendo emotivo che dia spessore definitivo all’album e così è, anche se dobbiamo aspettare i secondi finali di “Killing To Survive” per ascoltare un rifiorire sonoro pregno di trascinante vitalità. Tutto si conclude con “What Lies Here”, che vede alla chitarra Andy Partridge (XTC) e Kevin Godley (10cc) alle seconde voci. Tutto estremamente raffinato e curato, ma quando si tratta di un pezzo in calce alla tracklist è necessario stupire l’ascoltatore non proporre un brano così prevedibile.
In definitiva Flowers At The Scene è un gioiellino sotto molti punti di vista, un disco ben suonato, con una sua identità e originalità, non il solito prog. rock canonico. Il parterre di ospiti presenti lo rende un’uscita ulteriormente stimolante da approfondire e non dubitiamo che Bowness bisserà il successo del suo cd solista uscito nel 2017. Per arrivare al capolavoro, tuttavia, serve maggiore incisività in alcuni brani che li renda degli istant classic.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)