Recensione: Fly Paper

Di Angelo D'Acunto - 13 Febbraio 2008 - 0:00
Fly Paper
Band: Tiles
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2008
Nazione:
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80

Definiti dallo stesso Ian Anderson in persona come “una delle promesse più brillanti del prossimo millenio musicale” e apprezzati dal drummer Mike Portnoy quel tanto che basta per sceglierli come supporting-act del tour europeo dei Dream Theater, gli americani Tiles, sono una band che si è saputa muovere egregiamente nel circuito nazionale ed internazionale con una interessate proposta fatta di un sound sempre a cavallo fra l’hard rock più tradizionalista e un progressive rock che strizza l’occhio ai grandi maestri Rush. A quattro anni di distanza dall’uscita del precedente Window Dressing, album che virava verso territori nettamente più duri di stampo hard rock con l’aggiunta di tematiche epiche, il quartetto di Detroit torna sul mercato con il quinto full-length, Fly Paper

Con questo nuovo Fly Paper gli elementi per fare il botto ci sono veramente tutti; a cominciare dalla miriade di ospiti di lusso presenti sul disco, fra i quali Alannah Myles, Kim Mitchell (Max Webster) ed Alex Lifeson (Rush), fino ad arrivare ad una produzione moderna e curatissima in ogni suo minimo dettaglio che viene affidata nuovamente alle sapienti ed esperte mani di Mr. Terry Brown (Rush, Fates Warning e Voivod). L’inizio del disco è ad opera della splendida Hide In My Shadow; traccia caratterizzata da un riff ossessivo di chiara matrice hard rock, seguito da un alternarsi di passaggi di chitarra acustica che lasciano spazio, successivamente, ad un refrain semplice ed immediato che va a stamparsi rapidamente in testa. Il secondo pezzo, Sacred & Mundane, aggressivo e dirompente nelle parti di chitarra guidate egregiamente dall’apparizione dello special guest Alex Lifeson, il quale si mette in mostra con una prova maiuscola capace di gettare non di poco nell’ombra l’operato di Chris Herin. Il punto più alto della produzione viene raggiunto subito con la successiva Back & Forth; traccia molto sperimentale e che si distacca nettamente da quelli che sono gli standard predefiniti della band di Detroit. In questo caso, il gruppo si sposta verso territori decisamente più prog- oriented, caratterizzati da una serie di riff di chitarra serrati e da cambi di tempo improvvisi, per poi lasciare spazio ad un ritornello intenso ed emozionante grazie anche al perfetto inserimento dei cori ad opera della bravissima Alannah Myles, capace di mettersi in netto contrasto con l’altrettanto ottimo operato di Paul Rarick dietro al microfono. Quello che stupisce ancor di più durante lo scorrere della tracklist, è la capacità della band di riuscire a proporre una lista di brani molto vari, che risultano essere capaci di muoversi su piani e strutture ritmiche differenti l’una dall’altra con una serie di spunti che fungono da personale tributo a quelle che sono le vecchie glorie del genere. Notevole il lavoro dell’intera sezione ritmica della band, la quale si lancia in una e vera propria corsa sfrenata durante lo scorrere della schizofrenica Landscrape; traccia dotata di una serie di riff ripetitivi e quasi snervanti che vanno a strizzare nettamente l’occhio al sound di casa Rush, oppure la psicheledia di Markers, in cui i nostri abbandonano temporaneamente la vitalità e l’immediatezza che hanno caratterizzato tutta la prima parte del disco per lasciarsi andare a momenti più statici e riflessivi. In quest’ultimo caso, il brano risulta essere un vero e proprio tributo ai maestri Pink Floyd, con tanto di aggiunta dei passaggi tastieristici ad opera di Matthew Parmenter. Se la fantasiosa Dragons, Dreams & Daring Deeds, ci riporta momentaneamente verso le tematiche di natura epica già riviste nel precedente Window Dressing, ma stavolta riviste con un approccio meno duro e diretto con il delicato susseguirsi di sognanti arpeggi di chitarra ad opera dell’ottimo Chris Herin misti a progressioni decisamente più tecniche e varie nel loro susseguirsi, la successiva Crowded Emptiness ritorna su quella semplicità compositiva che è la vera matrice della prima parte di Fly Paper, con tanto di chitarre in acustico e di cori aggiunti in un refrain diretto e solare. Il finale viene riservato alle sfuriate puramente hard rock della conclusiva Hide & Seek, che ci riporta direttamente verso le sonorità che caratterizzano le prime produzioni della band, riviste però con un approccio decisamente più maturo. Tutto questo giova decisamente all’evoluzione di un sound che mira prevalentemente ad oltrepassare gli standard prefissati del genere, garantendo un risultato ancora più convincente in fase di ascolto.

Quella che abbiamo di fronte con Fly Paper, è un’opera matura e di gran classe, composta da una serie di brani che riescono a coinvolgere ed a brillare in tutto il loro splendore. Un disco suonato da musicisti maturi che hanno nella loro forza la capacità di osare e lasciarsi andare con un sound che non sempre risulta essere capace di dare risultati positivi e può, il più delle volte, finire per essere troppo scontato e banale grazie anche all’esistenza di gruppi che hanno fatto e continuano tutt’ora a fare la storia del genere. Bersaglio centrato in pieno dunque: i Tiles volevamo comporre il miglior disco della loro carriera e ad ascoltare il risultato ottenuto, direi che ci sono riusciti nel migliore dei modi. Magari in futuro, riusciranno a regalarci altre sorprese altrettanto gradevoli, ma per il momento, Fly Paper, può tranquillamente candidarsi per essere una delle migliori uscite di questo 2008.

Angelo ‘KK’ D’Acunto

Tracklist:

01 Hide In My Shadow
02 Sacred & Mundane
03 Back & Forth
04 Landscrape
05 Markers
06 Dragons, Dreams & Daring Deeds
07 Crowded Emptiness
08 Hide & Seek

Line Up:

Paul Rarick – Vocals
Chris Herin – Guitars
Jeff Whittle – Bass
Mark Evans – Drums

Additional Musicians:

Alex Lifeson – Guitar (Sacred & Mundane)
Sonya Mastick – Percussion
Nate Mills – Vocals (Landscrape)
Kim Mitchell – Guitar (Dragons, Dreams & Daring Deeds)
Alannah Myles – Vocals (Back & Forth)
Matthew Parmenter – Keyboards (Markers, Hide & Seek), Vocals (Crowded Emptiness)
Hugh Syme – Keyboards (Crowded Emptiness)

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