Recensione: Flying Colors
L’inizio epico recita più o meno così: “Tutto è partito da una semplice idea: mettere insieme strumentisti virtuosi ed un cantante pop per creare una stile musicale del tutto nuovo, ma suonato alla vecchia maniera”.
I musicisti a cui ci si riferisce l’incipit riportato qui sopra altro non sono che luminiari del prog del calibro di Mike Portnoy (ex-Dream Theater), Steve Morse (Deep Purple), Dave LaRue (Steve Morse Band), Neal Morse (Spock’s Beard, Transatlantic), e l’outsider e talentuoso cantante pop Casey McPherson. Ecco qui i Flying Colors.
Continuando a leggere dal sito della band, sembra che l’idea di formare il superprogetto in esame sia venuta al megaproduttore Peter Collins (Bon Jovi, Alice Cooper, Rush e Queensryche), che completa il già notevole curriculum del gruppo con l’eccellente collaborazione dell’ingegnere del suono Michael Brauer (Bob Dylan, The Rolling Stones, Coldplay, John Mayer).
Gli strumentisti coinvolti, tutti così americanamente stacanovisti ed infaticabilmente impegnati in molteplici collaborazioni e progetti, riusciranno ad incontrarsi a gennaio del 2011 per una prima sessione di registrazione. In nove intensi giorni di lavoro gran parte dei brani vedono la luce. Successivamente i nostri prenderanno ognuno la propria strada in giro per il mondo fino a rivedersi altri quattro giorni nel mese di marzo, periodo utilizzato per completare e rifinire il lavoro iniziato al principio dell’anno.
Quando ho per le mani un disco del genere voglio sempre essere ben accorto ad evitare due pericoli.
Il primo è che dietro il progetto artistico si possa nascondere principalmente l’intento mercenario.
Voglio dire, nulla di male a voler vivere di musica e quindi a provare a dare un appeal commerciale alla propria creatività ed alle singole urgenze artistiche.
Creatività ed urgenza artistica però sono già di per loro merce rara, ma divengono ancor più rara se gli artisti coinvolti sono professionisti, cioè persone la cui fantasia, ingegno artistico ed in generale fame, potrebbero essere plausibilmente compromesse da logiche di opportunità e, perché no, indolenza non proprio estranee a gente che ha fatto dell’arte la propria professione.
Il nostro obbiettivo sarà quindi cercare di capire quanto questo lavoro sia o meno onesto, fresco, sentito.
Il secondo pericolo, più squisitamente musicale è il seguente: data la particolare prolificità dei musicisti coinvolti, esiste un eventuale possibilità che il proprio suono risulti inflazionato da una così prospera creatività?
Questa vuole essere la bussola per orientarsi nell’affollato mondo delle produzioni musicali, quindi andiamo a vedere traccia per traccia il cd.
Blue Ocean. Outtakes apparentemente casalingo con le voci dei membri della band che scherzano, un paio di accordi e qualche nota di basso. Standby studio and good luck: si inizia.
Il riff purpleiano che disegna LaRue viene garbatamente impreziosito da micro-inserti di piano, chitarra crunch ed organo che si riuniscono ordinatamente in un unisono melodico. Casey McPherson entra sicuro, caldo ed espressivo sulle prime brevi strofe che subito portano al bridge convincente come un ritornello ed al successivo ritornello con i morbidi cori di Neal Morse.
Seconda strofa con Casey ancora più convinto e sfumati arrangiamenti di organo alla Yes, Portnoy introduce il bridge successivo con un tecnico riff, ed ancora il chorus disimpegnato e fresco dai bei cori.
Lavoro di sponda per Portnoy e di nuovo bridge per Casey ed i coristi d’eccezione.
E’ il momento del solo di Steve Morse, che apre tutto tocco e blues per passare indolore a double stops e chicken picking della migliore tradizione country, ed infine arrivare a lidi misolidi e cromatici. Il solo è un crescendo brillante e spigliato, perfetto compendio dello stile morsiano, con rapide plettrate alternate, rincorse melodiche, bending countreggianti e tanto, tanto mestiere. Ancora bridge e ritornello con piccole e canoniche varianti nella partitura. L’inizio è più che buono.
Shoulda Coulda Woulda. Inaspettato pezzo hard rock moderno e massiccio, anche se un po’ fuori contesto, soprattutto se si pensa alle motivazioni nerdgasmiche che ci hanno spinto ad ascoltare i Flying Colours. La traccia è comunque molto coinvolgente, con chitarra, batteria ed un basso dal suono piacevolmente grasso, che picchiano un riff quadrato ed ipnotico, e tutti i musicisti presi dall’adrenalina. Grande McPherson, che interpreta il brano con la giusta convinzione. Il ritornello è trascinante come una rissa da bar e reso ancor più interessante da un lieve filtro sulla voce (questi produttori, che volponi) e dal bel lavoro dei cori. Il solo forse un poco troppo lungo e dispersivo per il taglio della canzone, quanto un tantino anonimo, ha un guizzo piccolo e prezioso nel passaggio cromatico intorno a 2:15 – 2:17. Chiude Portnoy alla sua maniera. Brano che convince, inaspettatamente selvaggio, ma sempre sapientemente dosato. Ottimi gli arrangiamenti minimalisti e vintage fatti di bending strategici e ricami di tastiere.
Kayla. Steve Morse ci regala un’ introduzione fatta di qualche manciata di battute acustiche molto liriche e personali. Il bel cantato di Casey mi convince in ogni punto del brano, ed il ritornello è uno di quelli che ti fa tornare indietro col lettore. Semplice ed essenziale, misuratamente varia nei suoi bridges, rassicurante come la presenza di un amico fidato. Numerosi sono gli spunti melodici e divertenti le idee contrappuntistiche negli arrangiamenti della chitarra e dei cori prima del’assolo di elettrica, che sembra quasi improvvisato a giudicare dal viscerale ed insistente uso della pentatonica, chiuso dall’immancabile ascesa scalare del buon Morse. La prova solista termina con un poetico epilogo melodico armonizzato in ottave, ed un aggressivo ed avvincente ponte strumentale che ci proietta al ritornello. Il cerchio si chiude con l’acustica di Morse. Bravi. Me la riascolto!
The Storm. Uno dei pezzi con l’appeal più radiofonico del disco. Una chitarra ritmica essenziale ed il pianoforte introducono i versi iniziali, e prima di accorgersi del charleston di Portnoy in sottofondo, arriva il ritornello pop con la sua elegante variazione atonale, piccola chicca armonica che ci ricorda dei furboni dall’altra parte. Per gli attenti ascoltatori segnalo l’appetitoso lick di chitarra, con la Steve Morse Band nel DNA, a termine del ritornello, e la sua long version a metà del brano prima del solo, con McPherson a fare il verso a Bono. L’assolo è morsiano, con nulla fuori posto. I cori cascano a bomba e Portnoy, è Portnoy.
Forever in a daze. L’Intro minimale di elettrica è accompagnato dallo schiumante slap di LaRue che ci accompagnerà per tutta la durata delle strofe iniziali e fino ad un ritornello piuttosto spensierato ma carnoso. Bridge strumming e suono crunch, poi di nuovo il cantato, con LaRue in evidenza e Neal Morse che si cimenta in cori non proprio all’altezza, precedono il ritornello lanciato da un elegante hammond. Ancora LaRue con un divertito lavoro di slap (doppiato) e Steve Morse a fargli il verso con navigata sapienza country. Altro bridge, questa volta cantato con scaltra variazione tonale, hammond nell’aria, doppia cassa e slap, a non tradire la natura tiepidamente sperimentale del brano.
Love is what I’m waiting for. Altro brano più che radiofonico: starebbe bene per una pubblicità alla tv. Classico struttura da ballata pop dei bei tempi che furono, con una non imbarazzata strizzata d’occhio a Beatles e Queen. Ruffiano il solo di chitarra, ispirato chiaramente a Brian May oltre che nelle scelte armoniche, anche nel suono, viene comunque personalizzato da Morse con una tipica e veloce frase scalare al termine della performance. Una canzoncina allegra e poco impegnativa, che per quanto si voglia essere cattivi, ispira simpatia.
Everyting Changed. La breve intro è affidata ancora a Steve Morse, che si diverte ad orchestrare per tre chitarre elettriche ed una acustica le battute di apertura. A chiusura dei primi 40 secondi veniamo colti ancora da reminiscenze vintage. L’armonia vocale dolce ed essenziale, una lontana chitarra acustica e la complicità di un morbido ed ovattato organo, riportano alla mente “Wild World” di Cat Stevens. La strofa apre sul bel ritornello. Ottimo McPherson. Nel secondo verso tutto prende nei suoni un andamento più al passo coi tempi, complice il drumming pulito e moderno di Portnoy. Rompe la linearità della composizione la variazione a metà brano che introduce il solo di chitarra: godibile, ma alquanto “lickettoso” per i miei gusti. Siamo anche qui alla presenza di un pezzo più pop che rock, dal finale che sembra esser stato tirato un po’ troppo per le lunghe. L’ultima parte è una gloriosità digitale non necessaria, e davvero letale.
Better than walking away. Altro brano pop-rock radiofonico. Ottima la prestazione di Casey che qui diviene il vero strumento solista, muovendosi nella seppur banale composizione con onestà, tecnica, cuore. Nè infamia nè lode per i cori di Neal Morse. Articolato ma mai presuntuoso il lavoro delle chitarre. Ordinario LaRue. Dosato il drumming di Portnoy. Furbi ed eleganti gli arrangiamenti. Più bello per gli arrangiamenti e per la prova vocale, che per le modeste melodie.
All falls down. Qui il registro cambia del tutto. Il brano parte a tutta birra con doppia cassa, chitarra e basso che ci sollazzano con efficaci e vigorose chiusure all’unisono. Praticamente inesistenti i cori, se non per la sottolineatura in chiusura del chorus e del finale: ci sento qualcosa che mi ricorda i Manowar. Mi si perdoni l’ardito accostamento. L’ interludio strumentale invece è LTE. Peccato duri poco, perché mi stavo già esaltando. Divertissement tecnico, ammorbidito dalla sempliciotta e bidimensionale linea melodica, sufficientemente all’altezza dei musicisti impegnati nel suonarlo. Forse è più una gratificazione che un vero e proprio brano. Non mi convince del tutto Casey, soprattutto sul finale.
Fool in my Heart. Ballata rock accademica, cantata principalmente da Portnoy, con arrangiamenti di mestiere, cori banalotti e melodie un po’ insipide. Plauso a Morse, apprezzabile più per l’accompagnamento elegante ed hendrixiano che per il solo, che a tratti sembra provenire dalle sei corde di Jim Martin.
Infinite Fire. E’ sicuramente il brano che vi aspettereste di ascoltare dagli Jedi del prog coinvolti in questo progetto, o per lo meno che io mi aspettavo di ascoltare.
Le carte qui sono giocate un po’ tutte. Grande lavoro di Neal Morse, che firma gran parte dei più interessanti 12 minuti dell’album. Seducenti e stimabili le prestazioni individuali, ognuna delle quali riesce a trovare una voce propria. Fascinoso e vario Steve Morse. Classicamente genialoide il già citato Neal Morse. Piacevoli, ostinate idee melodiche si rincorrono, ridisegnandosi organicamente, quasi fossero processi biologici, nel più giurassico e sano spirito prog. LaRue firma con personalità costante il suo playing. Portnoy finalmente si esprime in territori a lui più consoni con un’eccellente performance. McPherson è più che all’altezza. Irresistibile l’interludio a 7:47, che riporta direttamente ai Kansas di The Pinnacle, steroidizzato dalle chitarre di Morse che nel brano apprezzo più come ritmico, compositore ed arrangiatore che come solista: l’ho detto. Finalmente l’intero ensemble manifesta dichiaratamente la sua natura con una composizione che pur non spingendo il pedale sull’acceleratore, pungola e trova la creatività e la personalità dei nostri. Era ora.
L’idea che mi sono fatto è che con Flying Colours ci troviamo dinnanzi allo sfizio divertito di un produttore e di cinque professionisti dello strumento, che per la maggior parte del tempo navigano in acque che non gli appartengono.
La sensazione generale è di un disco ben confezionato, ma sufficientemente disomogeneo, non tanto per la natura dei pezzi, privi di una reale credibilità di intenti, quanto per la frettolosa amalgama congenita al progetto stesso. Infine, senza venir meno ai propositi dei primi righi: non vedo dietro questo lavoro diabolici e malcelati propositi commerciali sembrando, nelle intenzioni e nel risultato di buon artigianato professionale, onesto.
Le competenze, le capacità ed il mestiere presenti nel lavoro alzano la valutazione generale, riuscendo quasi sempre a compensare la scolasticità di idee ed interpretazioni che da parte di musicisti del genere fa sempre male quando c’è. Il voto finale vuole dunque essere il modesto invito di un amico a mettere il disco nel lettore e dargli una possibilità. Dimenticavo: l’artwork è fantastico.
Buon viaggio.
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Tracklist:
01 : Blue Ocean (7:05)
02 : Shoulda Coulda Woulda (4:32)
03 : Kayla (5:20)
04 : The Storm (4:53)
05 : Forever in a Daze (3:56)
06 : Love is What I’m Waiting For (3:36)
07 : Everything Changes (6:55)
08 : Better Than Walking Away (4:57)
09 : All Falls Down (3:22)
10 : Fool in My Heart (3:48)
11 : Infinite Fire (12:02)
Line-up:
Steve Morse: Lead and Rhythm Guitar
Casey McPherson: Vocals, Keyboards, Rhythm Guitar
Neal Morse: Keyboard, Vocals
Dave LaRue: Bass Guitar
Mike Portnoy: Drums, Percussion, Vocals