Recensione: Flying Solo
Torben Enevoldsen, Flying Solo. Un nome e un titolo che già da soli preannunciano il genere di album cui ci troviamo davanti. Un virtuoso delle sei corde che dalle terre danesi tenta la strada del successo solitario, con il proposito di affiancare il proprio nome a quello dei grandi maestri della chitarra. Già axeman dei Section A, progressive band tra le cui file militano tra gli altri un certo Derek Sherinian e alcuni membri dei tedeschi Vanden Plas, Torben si offre al pubblico con un bagaglio di due dischi da solista sulle spalle, frutti di una carriera ormai decennale. La sua nuova fatica propone un hard rock strumentale e melodico, dal sapore jazzistico e dal retrogusto neoclassico, incentrato, com’è ovvio, sulle chitarre.
Un rapido ascolto offre subito una prima certezza: Torben non è un virtuoso solo a parole. Preciso, scorrevole, pulito prima che veloce, il danese riesce a dare sfoggio di una perizia tecnica di prim’ordine senza scadere nell’esibizionismo o nell’autocelebrazione. Le attenzioni profuse in fase di produzione non sono state vane, e il suono eccezionalmente cristallino sprigionato dalle casse valorizza appieno il lavoro delle chitarre facendone scintillare ogni evoluzione. Le dieci tracce che vanno a comporre la scaletta scorrono senza intoppi intessendo una trama distesa di melodia raffinate, dotate di compattezza e continuità anche laddove flettono verso generi diversi, dal prog alla fusion. In mezzo a molti passaggi di qualità si ricordano con piacere l’opener 1:49 A.M., la fresca e imprevedibile Lobotomized (in cui cominciano a intensificarsi i riferimenti a jazz e fusion) e la solare First Attempt.
Tuttavia, se è vero che la detta continuità giova alla fluidità dell’ascolto e permette a Torben di definire con tratto spesso i confini del proprio stile, è anche vero che alla lunga è proprio la stessa compattezza del sound a rischiare di rivelarsi un’arma a doppio taglio. Al di là della breve (e piacevole) acustica A Minor Detour, infatti, non sono poche le canzoni che a un ascolto superficiale si rivelano un po’ troppo simili tra loro: un difetto cui l’assenza di melodie vocali non aiuta a porre rimedio. Peraltro, gli stessi passaggi che per un esperto rappresentano pietanze sofisticate e prelibate, possono apparire bocconi poco saporiti per i gusti meno raffinati di un neofita, col risultato di strappare alla lunga qualche sbadiglio. E se è vero che alle corde di Torben è difficile muovere qualche critica, almeno dal punto di vista tecnico, non altrettanto può dirsi delle ritmiche, poco incisive e di certo non al livello delle chitarre. Manca qui quell’energia, manca quella verve che potrebbe (dovrebbe) contribuire in modo determinante alla profondità dei brani, così come a questi ultimi manca in fin dei conti quel surplus di qualità che permette di distinguere un buon pezzo da un capolavoro. Difatti, se pure si è detto, e qui si conferma, che la qualità media della tracce può essere collocata su standard più che apprezzabili, è altresì difficile ritrovare spunti particolarmente originali o d’impatto, e anche le tracce migliori non riescono a imporsi a un livello superiore. Più che a limiti di songwriting, la pecca può essere imputabile a una vaga aura di già sentito che aleggia su più d’un brano, riportando la memoria a diversi capisaldi del settore; tra questi, il debito da pagare a Satriani non è di lieve entità.
Nonostante quanto rilevato nelle ultime battute, il bilancio finale rimane ampiamente positivo. Non v’è dubbio alcuno che Torben Enevoldsen sia una delle realtà più interessanti dell’attuale scena europea, e che meriti tutto il rispetto e l’attenzione degli addetti al settore. Tuttavia a una tecnica sopra le righe non si accompagna per ora un’altrettanto impressionante talento creativo, cosicché il prodotto finale, per quanto buono, non riesce ancora a imporsi come imprescindibile punto di riferimento del genere. Di certo gli appassionati dello shredding vorranno far loro questo bocconcino saporito, e sapranno gustarne appieno le minuzie e i dettagli che spesso sfuggono a un orecchio inesperto. Chi invece non è avvezzo al settore o non apprezza particolarmente i virtuosismi della chitarra potrebbe finire alla lunga per cedere alla noia. Chi infine avesse intenzione di avvicinarsi per la prima volta al genere, ha con questo disco l’opportunità di farsi un’idea di che cosa significhi saper suonare una chitarra (non di sola velocità vive il virtuoso), benché probabilmente il suggerimento più appropriato sia quello di passare prima dai grandi classici del passato – da Jason Becker a Steve Morse, passando per Vinnie Moore, Paul Gilbert, Andy Timmons, Martin Friedman… – cercando di esulare dai soliti tre o quattro personaggi stranoti. Anche se il presentimento è che, un giorno, dovremo aggiungere a questi il nome di Torben Enevoldsen.
Tracklist:
1. 1:49 A.M.
2. Departure
3. Lobotomized
4. Last Call
5. Beyond Compare
6. Odd Measures
7. Daybreak
8. First Attempt
9. A Minor Detour
10. Finally Home