Recensione: Folkesange
Terzo album in cinque anni per Myrkur e terzo cambio di pelle, stavolta anche più radicale rispetto al precedente. Se dal black darckeggiante di “M” si era passato a quello molto più goth, fin quasi sognante, di “Mareridt”, con questo nuovo “Folkesange” il cambio è chiaro fin dal titolo: canzoni folk, per l’appunto. Tutto il black sparisce e rimane un album di dodici tracce di fatto acustiche, chitarra, violini e qua e là tastiere.
Anche parecchio spirito metal sparisce. Più che rifarsi a un “Kveldssanger” degli Ulver o a un “Sagovindars Boning” senza elementi elettrici, qui i maestri sembrano più Liv Kristine e Mike Oldfield, che in Scandinavia ha lasciato parecchi proseliti nelle schiere metalliche, e certo qual indie folk.
Tanta carne al fuoco e cercheremo di distribuirla per bene. Sarebbe però ipocrita non cominciare la disamina di “Folkesange” dal punto focale che muove tutto l’album. Qui di anima ce n’è. Non tantissima ma ce n’è. Quello che c’è davvero però è la volontà di fare musica che piace.
Questo potrebbe essere un grave difetto, non fosse per un piccolo particolare. Il disco, a piacere, ci riesce benissimo. E non stanca. Questa è una cosa molto rara, altrimenti queste pagine sarebbero piene di votoni dati a gruppi female fronted fatti con lo stampino. E invece no, a guardar i voti di progetti di tal tipo ci si rende conto di che refugium pecatorium sia questo universo.
Veniamo ora a “Folkesange”, album che chi scrive sente di dividere in due parti: le prime quattro canzoni e il resto.
Questo perché in effetti il disco parte piuttosto bene, ma quel che vien dopo è davvero di livello superiore. “Ella” (primo singolo) è un pezzo messo lì in apertura soprattutto per mettere in evidenza le capacità canore di Amalie Bruun – come se nel resto dell’album non si sentissero – ma in effetti più di tanto non è che colpisca (e questo, in misura minore, vale anche per “Leaves of Yggdrasil”, secondo singolo). La successiva “Fager som en Ros” recupera invece appieno dalla tradizione scandinava, con una melodia incalzante di chitarra e voce – gli Otyg acustici appunto. Molto bello, ma la sensazione è che questo tipo di canzoni nell’interpetazione di myss Myrkur siano un po’ affettate. Questo vale anche per “Ramund”, che preferisce atmosfere sospese ai ritmi incalzanti. Tuttavia, da qui in poi, la sensazione che Amalie non sia perfettamente a suo agio con le sonorità di casa propria viene malamente smentita.
Con la quinta traccia, “Tor i Helheim”, abbiamo infatti una sterzata. Il cantato tipico del folk scandinavo rimane, quello che cambia è l’attitudine. Un po’ meno filologica, più personale, molto più elaborata. Sembra chitarra, voce e violino, ma ci sono una marea di sovraincisioni, di backing vocals. E qui il ricordo va immancabilmente alle ballad di un album che ha segnato la mia gioventù, ovvero “Vinland Saga” dei Leaves Eyes. Ed è un disco che ritorna spesso alla memoria, ascoltando ad esempio la conclusiva “Vinter”, l’ottima “Raier” e soprattutto “Harpens Kraft”, che è voce e chitarra, ma conquista fin da subito ed è veramente un pezzo che toglie il fiato.
Altri pezzi di assoluto valore, sono poi “House carpenter” (episodio in realtà un po’ a sé stante ma pazienza) e “Gudernes Vilje”, dove il retaggio indie di Amalie emerge prepotente, tanto che i nomi che vengono sono più Sarah Brightman e Mike Oldfield (e di conseguenza, di nuovo, i Leaves Eyes).
Disco derivativo? Hai voglia – non è che puoi fare del folk e aspettarti innovazione!
Di fatto però si tratta di folk fatto estremamente bene, con uno spirito non esattamente di recupero filologico, non esattamente metal, ma anche con un approccio poliedrico impressionante. Ne viene fuori un pugno di dodici canzoni dalle melodie semplici, ma costruite con meticolosità. “Folkesange”, si è detto, è fatto per piacere e ci riesce benissimo. Sicuramente tra le meglio uscite di questo inizio di anno e la fragile consapevolezza che, almeno per quanto riguarda Myrkur e Cellar Darling, il female fronted metal sa ancora regalare grande musica.