Recensione: Following The Beast
«Gormathon? Chi sono costoro?»
Parafrasando Don Abbondio, ci si potrebbe porre la stessa identica domanda con riferimento alla band proveniente da Bollnäs, Svezia. Una band che, tuttavia, così ‘invisibile’ non è, giacché – dalla nascita avvenuta nel 2009 – hanno pubblicato due single (“Skyrider”, 2010; “Land Of The Lost”, 2012), un EP (“Celestial Warrior”) e soprattutto due full-length (“Lens Of Guardian”, 2010; “Following The Beast”, 2014).
Del resto, l’attuale mercato del metal è inflazionato in maniera eccessiva, per cui è addirittura normale che un ensemble dal decente livello qualitativo (quando mai accade il contrario, discutendo di terre scandinave?) sia pressoché sconosciuto ai più. Tanto più che, di primo acchito, osservando la copertina e scorrendo i titoli delle canzoni, “Following The Beast” non emerge per caratteristiche particolarmente significative; rimandando non a caso la memoria visiva alle opere di gente come Debauchery o GWAR.
Comunque sia, focalizzando l’attenzione sull’aspetto prettamente musicale occorre rimarcare in primis che i Gormathon si autodefiniscono come una sorta d’incrocio fra angeli e demoni, significando con ciò una spiccata attitudine a pestare duro ma anche ad accarezzare le membrane timpaniche. È melodic death metal, quindi, il genere che più si accorda alla proposta dei Nostri, anche se – contrariamente a facili pronostici – resta piuttosto lontano dalla foggia di Goteborg. E questo poiché Tony Sunnhag e i suoi soci prediligono un approccio ortodosso alla questione, imbevendo cioè sino all’osso le song di “Following The Beast” con l’heavy metal classico. Classico suonato rispettando tutti moderni cliché in materia. Di quello sfociante a volte nel power e che vede la scuola teutonica in prima fila ormai da decenni (Angel Dust, Primal Fear, Accept), insomma. Tanto è vero che l’orecchio più attento è clamorosamente e paradossalmente ingannato da un sound che, a scommetterci pure sopra, si deputerebbe al 100% come nato in Germania. Invece…
Seppure questa particolarità non sia da gettare alle ortiche, in quanto cartina al tornasole di una consistente volontà di tentare una strada diversa dal solito, la sensazione che prevale durante l’ascolto del platter è ‘che manchi qualcosa’. O, meglio, che non sia stato centrato l’obiettivo di giungere a un sound dotato di personalità. Nulla si può eccepire sulle capacità tecniche ed esecutive dei cinque membri dell’equipaggio, ma molto si può dire – al contrario – in relazione allo spessore del loro talento compositivo. Che, purtroppo, non pare possedere quel necessario quid tale da sollevare le sorti di un disco alla fine dei conti noioso. Noioso giacché, a parte la buona melodiosità che sostiene l’opener “Remedy”, tutto ha il sapore di un tremendo dejà-vu. Passando da un brano all’altro, tanto per essere chiari, pare di ripetere sempre – o quasi – l’ascolto dello stesso. A parte la consolidata struttura dei pezzi, che non offre il fianco a sorprese di sorta, “Following The Beast” è davvero arido di momenti interessanti, di passaggi se non memorabili almeno degni di menzione. Tutto si perde in un amalgama amorfo, come se imperasse una costante indecisione sul fatto di premere il pedale dell’acceleratore sul death, sul power o sull’heavy metal.
Dato atto della qualità globale della band, è probabile che nelle teste dei membri il tutto sia più chiaro di quanto non appaia, ma proprio per ciò, forse, aumenta il rimpianto per un’opera che, altrettanto probabilmente, non lascerà segno sulla via del metallo.
Daniele “dani66” D’Adamo