Recensione: Fool’s Game
Perché un particolare genere musicale possa svilupparsi e, ancora di più, sopravvivere alla prova del tempo e delle mode, è assolutamente indispensabile che sia provvisto di una caratteristica fondamentale: il sapersi rinnovare. Quante volte, infatti, abbiamo assistito alla nascita di correnti che sembravano essere la nuova «via» al metal e che poi si sono sciolte come neve al sole? Prevedibilità, scarsezza d’idee e mancanza di novità sono state le cause che tante volte hanno segnato la fine di mode episodiche.
Il thrash metal, nel corso degli anni, è riuscito a proporre ai suoi appassionati molteplici possibilità di cambiamento e di uscita dagli schemi archetipici del genere. Questo, grazie anche a un album che, se certamente non passato alla storia come grande successo commerciale, ancora oggi è ricordato come una pietra miliare della creatività e dell’eclettismo nel thrash.
“Fool’s Game” vede la luce nel 1989 ed è l’esordio dei Mordred con la Noise Records dopo la consueta gavetta fatta di demo iniziata nel 1984. Provenienti da San Francisco, sono stati ovviamente influenzati dalla feconda (musicalmente parlando) atmosfera dell’omonima baia, che tanto bene ha fatto al genere. Sono quindi di rigore: tecnica, freschezza nei suoni, una compressione della chitarra ritmica marcata, ma mai troppo brutale e soli sempre puliti e ricercati. Oltre a tutto ciò, i Mordred mettono moltissima farina del loro sacco ed è proprio questo a rendere “Fool’s Game” un piccolo grande gioiello.
L’album si apre nel modo più classico: “State Of Mind” è un’opener dirompente, solidissima e al contempo accattivante. Tutto è al posto giusto. S’inizia subito al meglio con la base ritmica sugli scudi e con uno splendido uno-due delle soliste. È subito evidente come si tratti di thrash «di classe», se passate il termine, e anche le linee vocali di Scott Holderby risaltano subito rispetto alla massa degli urlatori tipici del genere. Una canzone perfetta, senza dubbio, e anche l’immediato seguito del disco non è da meno: in “Spectacle Of Fear”, ancora una volta, basso e batteria sono in grande spolvero, grazie anche a un’ottima produzione per l’epoca. Non solo, finalmente le quattro corde di Art Liboon riescono a trovare una nuova consapevolezza del proprio ruolo, andando a caratterizzarsi non solo come struttura portante dei brani, ma come vero e proprio fiore all’occhiello dei pezzi, tanto da assumere caratteristiche solistiche.
Il culmine è raggiunto con “Every Day’s A Holiday”: il ghiaccio è rotto, la paura di osare viene completamente meno e i Mordred firmano quello che forse è il brano che ha maggiormente contribuito a renderli conosciuti. La base chitarristica thrash in questo caso è arretrata e ridimensionata, anche se non completamente cancellata e serve più che altro a fornire uno stimolo al pezzo che, grazie a un basso pulsante e, appunto, onnipresente, s’inserisce pienamente nei canoni del funk. Non solo, grazie ai servigi di Aaron “DJ Pause” Vaughn (che poi entrerà in pianta stabile nella band) sono inserite parti di scratch e di campionamenti tipici del rap, che non hanno il semplice scopo di innovare il brano o fargli assumere una vaga connotazione modernista, bensì ne sono la caratteristica fondamentale. Questo cambio di rotta rispetto al classico bay-area thrash è tanto marcato quanto qualitativamente rilevante.
Dopo questo vero e proprio asso nella manica, l’album continua con uno stile più canonico nei pezzi successivi, che sono comunque altrettanto buoni: songwriting brillante e brani decisamente accessibili senza mai essere spudoratamente commerciali, strutture dinamiche e mai ripetitive, spunti tecnici mai fini a se stessi. “Shatter” e “Reckless Abandon” sono altri due splendidi tasselli che s’inseriscono alla grande nell’album. Non solo. Non c’è nessun particolare calo di tensione lungo il disco, anzi, come penultimo brano i nostri scelgono una celebre cover del re del funk made in Motown Rick James: quella “Super Freak” spesso proposta nei contesti mediatici easy listening, ma che i Mordred riescono a personalizzare alla grande. Se prima, infatti, erano riusciti a rendere funky il loro thrash, questa volta riescono a rendere thrash un pezzo rappresentativo del genere di James Brown & Co. Solo una grande band sarebbe potuta riuscire in un azzardo così notevole.
“Fool’s Game” è un lavoro eccezionale, non solo per le sue evidenti qualità intrinseche, ma perché rappresenta il primo vero tentativo di mischiare generi tra loro geneticamente lontanissimi. Prima dei Faith No More di “The Real Thing”, dei Death Angel di “Act III” e delle sperimentali collaborazioni di Anthrax e Public Enemy o di Slayer e Ice-T, i Mordred hanno avuto il coraggio di osare qualcosa di assolutamente nuovo per il metal e di rischioso per una «fan-base» spesso conservatrice. Oggi, a prescindere da quei risultati commerciali spesso bugiardi se paragonati agli effettivi meriti, possiamo dire che lo hanno fatto alla grande.
Vittorio “Vittorio” Cafiero
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Track-list:
1. State Of Mind 5:21
2. Spectacle Of Fear 3:07
3. Every Day’s A Holiday 2:47
4. Spellbound 3:47
5. Sever And Splice 3:24
6. The Artist 4:27
7. Shatter 3:50
8. Reckless Abandon 4:07
9. Super Freak 2:23
10. Numb 4:48
All tracks 38 min. ca.
Line-up:
Scott Holderby – Vocals
J. Taffer – Guitars
Danny White – Guitars
Art Liboon – Bass
Gannon Hall – Drums