Recensione: For King And Country
La Letteratura nel corso della sua esistenza fatta di colore e calore, snodi, declinazioni, ambiti, scoperte, condizionamenti, coinvolgimenti, orientamenti, forgiature e tanto altro ha preso per mano l’umanità accompagnandola nel lunghissimo percorso della vita. Tra le tante strade che la Letteratura ha intrapreso nel lungo scorrere dei secoli una di sicuro interesse e vivacità è quella delle ri-scritture e per quanti volessero approfondire questo aspetto uno studioso da abbracciare è sicuramente Trifone Gargano, tra i primi a capire la potenzialità delle riscritture a tal punto da eleggerle tra i suoi preferiti filoni di ricerca.
Il concetto di ri-scrittura è semplice: si tratta di manipolare un testo, in alcuni aspetti, adattandolo a degli obiettivi specifici per farlo “rinascere” verso nuovi significati che in parte arricchiscono il testo di partenza. Questa operazione di manipolazione non rimane però confinata nel solco della mera Letteratura, ma si espande verso altre forme artistiche, come la Musica.
Questa operazione è stata svolta dai Cyan che hanno risuonato, secondo le inclinazioni della nuova formazione, il loro album del 1993 For King And Country.
Nel 2021 infatti questo bellissimo album è stato ripreso, rivisto, riscritto e risuonato dalla nuova formazione capitanata da Robert Reed; ascoltando For King And Country nella versione 2021 sembra che il tempo si sia fermato, perché la band ha la capacità di tenere in vita in chiave moderna gli ingredienti del passato tipici del Prog. Nei circa 66 minuti di musica si ha il piacere di ascoltare un album “moderno dal sapore vintage” oppure “vintage dal sapore moderno”, sarà l’inclinazione dell’ascoltatore a stabilire da quale parte accomodarsi per ascoltarlo.
In questo processo di riscrittura non è sfuggita la copertina, disegnata originariamente da Robert Reed, che nelle due versioni riprende lo stesso disegno, ma in chiave 2021 l’immagine riporta a uno stile figurativo (o fumettistico) tipico delle illustrazioni realizzate per i manifesti dei film di qualche decennio fa.
Il disco appare molto equilibrato in ogni sua parte anche se appaiono evidenti alcune ispirazioni che riconducono ad Hackett, Howe o addirittura Holdswort.
Con l’opener epica del platter è praticamente d’obbligo far riferimento alla release “originale” del 1993. The Sorceror è un viaggio incredibile alla scoperta di questo rivisitato mondo. Questa volta la line up presente è semplicemente incredibile. Le chitarre di Luke Machin (Maschine,The Tangent) sono eleganti e colorano alla perfezione la tela dipinta da Reed. I suoni sono moderni, ma si rifanno però alla tradizione del Prog attuale (si veda su tutti Jakko Jakszyk come punto di riferimento). La song è una suite rielaborata anche nella durata rispetto alla vecchia release ed è da segnalare anche la presenza di Angharad Brinn al microfono. La produzione è nitida e cristallina, in primo piano questa volta troviamo la voce di Pete Jones (Camel, Tiger Moth Tales e Spectral Mornings 2015 di Steve Hackett). Bella prova davvero e pathos incredibile soprattutto nello start corale dove appare singolare il tentativo di produrre un videoclip promozionale integrale della canzone, mossa ripetuta anche per il secondo singolo con medesima regia e location.
Call Me ha inserti in puro stile Pendragon, un chorus simil pop e delle risposte alle keys da parte di Robert Reed che si fissano nella mente al primo ascolto. Nella versione originale questo brano risulta essere strumentale, ma qui acquista tutt’altra verve con le parti vocali di Jones.
I Defy The Sun è da sogno, uno di quei brani che cambiano la vita. L’attacco è da brivido e il groove della sezione ritmica affidata a Dan Nelson al basso e a Tim Robinson alla batteria (che compare come session man) è semplicemente da manuale. Grandissima la prova alla chitarra di Luke Machin, in tutti gli inserti si può ritrovare eleganza allo stato puro. Il break centrale con l’ingresso di Angharad Brinn fa molto “Anathema” (ascoltare Lightning Song per farsi un’idea). Il brano è riarrangiato in modo impeccabile ed è un’esaltazione assoluta dell’originale. Per rendere l’idea del lavoro è come mettere a confronto i rispettivi artworks del disco: tutta un’altra cosa (senza per nulla togliere al lato concettuale e artistico dell’autore).
Don’t Turn Away ha un’introduzione trionfale con suoni alla Kansas, ma le prime note del tema principale fanno tornare alla mente Training Montage di Vince DiCola (brano dall’alto contenuto di testosterone presente nella soundtrack di Rocky IV). Abbiamo una vera e propria chicca dove ogni strumento, educatamente, riesce a dare sfoggio di sé. Questo è sicuramente uno dei punti più alti dell’intero disco.
Incredibile poi è a dir poco l’assonanza di sensazioni date dal cantato della suddetta song con quelle di Rainmaker (a proposito di Kansas…), brano contenuto in In The Spirit Of Things del 1988. Da sottolineare la prova al basso di Dan Nelson (Godsticks, Magenta), precisa e di classe.
Intro easy per la strumentale Snowbound, brano apparentemente dalle atmosfere soft ma che al suo interno ha un tema chitarristico molto breve ma comunque da brivido (richiami a Cliché, dall’album di debutto di Fish).
Man Amongst Men è la conferma che Robert Reed si trovava in stato di grazia all’epoca della composizione del disco; il brano è molto variegato e per nulla pacchiano.
A proposito del citato Fish lui ritornerà alla mente ascoltando le prime note di Night Flight. Sembra di essere dinnanzi al nostro giradischi con la puntina sul vinile di Fugasi dei Marillion e di ascoltare l’intro di She Chameleon. Qui sono in risalto le chitarre di Luke Machin (complice anche la produzione, semplicemente perfetta sulle sei corde).
In For King and Country duettano dapprima Machine e Reed, poi vi è l’ingresso di Peter Jones. Quest’ultimo è alle prese con la sua performance più emozionante e trascinante dell’intero platter. Il brano guadagna un groove molto “ottantiano” e si trasforma col passare dei minuti in qualcosa di più pomposo (e in linea con gli anni d’uscita). Di sicuro è il brano più sfarzoso che chiude dunque questo album all’insegna della classe e della nostalgia di bei tempi andati.
Tutto il disco ha il potere di affascinare a partire dalla genesi del disco allorquando, nei primi anni ’90, Reed iniziò a raccogliere dei fondi per registrare le canzoni che poi daranno vita a For King And Country. Così come è affascinante l’idea del leader di ritornare sui brani come se avesse trovato una demo perduta da tempo e nel tempo. Una demo prog di inizio anni ’90 quando qualcuno continuava ostinatamente a credere che il fenomeno del Punk avrebbe, fino alla fine, spazzato via tutto quello fatto dal Prog, ma questa è un’altra storia da trattare in altre sedi, forse più opportune.