Recensione: Forbidden
Tony Iommi – Guitars
Tony Martin – Vocals
Neil Murray – Bass
Cozy Powell – Drums
In questo disco, più che in ogni altro della discografia dei Black Sabbath, è importante mettere in chiaro da subito la line up di musicisti che ne hanno curato la realizzazione.
Questo perché il periodo che ha preceduto questo disco è stato forse, il più travagliato della storia della band di Birmingham.
Facciamo un passo indietro, precisamente nel 1992, anno in cui i Black Sabbath, reduci dal successo mondiale del loro ultimo album, Dehumanizer, vennero a sorpresa invitati dal loro ex leader, Ozzy Osbourne, ad aprire gli ultimi due concerti del suo tour Californiano, a Costa Mesa. A questo punto, Ronnie James Dio, all’ epoca singer della band, si rifiutò di parteciparvi, per evitare di fare da spalla al madman, con cui non intratteneva affatto buoni rapporti.. Subito Iommi e Butler, per evitare il flop completo dello show, decisero di portare con sé Rob Halford dei Judas Priest. Nel corso del finale della seconda serata, ci sarà addirittura il tempo per fare esibire i Black Sabbath e Ozzy insieme.
Ciò avrebbe sicuramente portato a pensare alla possibilità di una inaspettata reunion, che però non arriverà mai, permettendo ai Black Sabbath di seguire la loro strada e di riprendersi un po’ della notorietà che si erano via via lasciati dietro, grazie a delle performances live di tutto rispetto.
Intanto Ronnie James Dio e la sua spalla, Vinnie Apice, avevano definitivamente abbandonato la band, sostituiti da Tony Martin ( vecchia conoscenza dei Black Sabbath, avendo già lavorato con la band nei dischi: The Ethernal Idol, Headless Cross e Tyr, dal 1987 al 90 ) alla voce, e da Bobby Rondinelli alla batteria.
Passarono 2 anni e la band aveva rilasciato il suo successivo lavoro: Cross Purposes, facendo storcere la bocca ai critici, che già si erano resi conto che la situazione non era più come prima e che la band stava cambiando strada, passando ad un hard rock molto melodico e non più caratterizzato dai poderosi riffs e dai violenti colpi di cassa a cui ci avevano abituati, tipici di una band adoratrice del metallo puro.
Da qui nacque, seppur fra mille difficoltà ( culminate con l’abbandono di un altro dei fondatori della band, Geezer Butler, sostituito da Neil Murray ), nel giugno del 1995, Forbidden, disco che già all’ apertura del booklet, ci fa rendere conto del cambiamento che la band stava attuando. Infatti Iommi si affidò, per curare alcune parti dell’ album, soprattutto per quel che riguardò la fase di mixaggio e di post-produzione, all’ aiuto di un famoso rapper dell’ epoca, Jay-T, creando ovviamente critiche e dubbi fra i fans, che a questo punto non sapevano più cosa aspettarsi dalla band.
Così dunque, fu rilasciato sugli scaffali dei negozi, questo Forbidden, che fin dai primi trenta secondi di ascolto, ci convince del fatto che molte cose siano cambiate, principalmente per quanto riguarda l’aspetto squisitamente tecnico dei componenti della band.
Tony Martin è un bravo cantante, ma la tenacia e la cattiveria che Ronnie James Dio aveva messo in Dehumanizer, ad esempio, non gli sono proprie, e quindi la sua voce risulta si più melodica, ma al contempo spenta e amorfa, impedendo all’ ascoltatore di carpire le emozioni che invece le dovrebbero essere proprie. Anche Powell, non si può dire che abbia compiuto una performance da tramandare ai posteri: mai puntuale nelle battute di cassa, che sembrano quasi buttate li a caso, difficilmente si riesce a trovare un nesso logico fra il suo modo di suonare e quello degli altri componenti della band, rendendo quindi tutto molto caotico e banalotto.
Solo Tony Iommi, si può con sicurezza dire che si attesti sulla sufficienza piena, ma forse era interessato: doveva promuovere il suo album da solista, che sarebbe uscito un anno più tardi. Fatto stà, comunque, che i suoi riffs sono ancora molto precisi e denotano la sicurezza di un chitarrista che vuole dire la sua e far sentire al suo pubblico che anche lui c’è, eccome.
In “I won’t cry for you”, ad esempio, si sente che Iommi ha molta voglia di far bene, e in particolare in questo pezzo, la sua performance è addirittura ottima. Veramente pregevoli sia i riffs di background che quelli in evidenza,peccato per la voce di Martin, che sembra oggettivamente troppo strozzata e coperta dal suono degli altri strumenti, principalmente dalla batteria.
Il pezzo introduttivo di questo album, “The Illusion Of Power”, mi permetterà di descrivere anche la performance del quarto componente della line up, per questo disco, ovvero Neil Murray al basso. Infatti lungo tutta la durata del pezzo il suono del suo basso risulta maggiormente preponderante, rispetto alle altre, nel disco. Devo dire che il suono che ne consegue non è affatto disprezzabile, il problema è che, questo pezzo risulta essere una goccia in un deserto di anonimato che ha interessato anche Murray, se non, ripeto, per la prestazione sopra le righe in questo pezzo.
Nel pezzo susseguente, “Get a Grip”, infatti, tutto tornerà alla canonicità, per questo disco, di un anonimato piuttosto marcato. In questa traccia poi, si fa addirittura fatica ad udire la voce di Tony Martin, coperta quasi per intero dalle voci degli altri componenti della band che, senza un vero e proprio filo conduttore, lasciano scorrere il pezzo con perfetta noncuranza inglese.
Solo la title track si salva da tutto ciò, soprattutto per quanto riguarda il cantato, che qui è più in evidenza e Martin può far lavorare le sue corde vocali in modo più deciso, e soprattutto con più cattiveria, che gli era mancata invece, durante gli altri pezzi dell’ album.
Onestamente non si può dire che questo sia un disco riuscito per i Black Sabbath, che qui registrano un netta battuta d’arresto nella loro discografia, decisamente ricca di successi, anche recenti, rispetto a questo disco. Ma come si sa, non si può pretendere che una band suoni sugli stessi standard per 30 anni consecutivi, e i Black Sabbath in particolare, ne sono riprova, avendo passato anche più di un periodo difficile, durante il corso della loro carriera, uscendone a volte, anche piuttosto malconci, e questo ne è decisamente il caso. Dai Black Sabbath però, dopo la serie di sventure capitate prima della realizzazione di questo disco, non si poteva chiedere onestamente di più di un disco di transizione, un disco che sicuramente la band non ricorderà fra i migliori mai composti, ma che comunque rappresenta il ricordo di un annata storta, che la band ha passato, e che probabilmente ne ha segnato profondamente la carriera futura.
Daniele “The Dark Alcatraz” Cecchini
TRACKLIST
1. The Illusion of Power
2. Get a Grip
3. Can’t Get Close Enough To You
4. Shaking Off The Chains
5. I Won’t Cry For You
6. Guilty As Hell
7. Sick and Tired
8. Rusty Angels
9. Forbidden
10. Kiss of Death