Recensione: Force It

Di Abbadon - 26 Agosto 2003 - 0:00
Force It
Band: UFO
Etichetta:
Genere:
Anno: 1975
Nazione:
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91

Un anno dopo aver rilanciato la loro carriera, che rischiava di finire ancor prima di iniziare, con lo straordinario album “Phenomenon”, gli U.F.O tornano di nuovo sugli “ostili” botteghini inglesi e sui più favorevoli a loro mercati esteri con il loro quarto disco in 5 anni, intitolato “Force It”. Subito la gente si accorge che la band dimostra ampiamente, dopo aver finalmente trovato la giusta formula lavorativa,  di non essere solo un fuoco di paglia, ma una realtà fra le più importanti della scena hard rock della prima metà degli anni 70. Infatti Force It riceve ben presto i caldi e meritati consensi sia della critica che del pubblico, e quello straniero, che da sempre aveva apprezzato le opere di Mogg e compagni, e quello inglese, fino ad allora scettico, ma che stava finalmente iniziando ad apprezzare quel piccolo gioiello di casa loro, sempre bistrattato a causa di band quali Led Zeppelin e compagnia, che erano prima, seconda, terza e quarta opzione di acquisto dell’ascoltatore medio. Ci troviamo di fronte a quello che forse è il disco nel complesso più hard che la band di Michael Schenker, al secondo album con gli UFO, avesse mai concepito fino ad allora, e questo fatto viene mostrato in tutte le componenti del disco, a partire dal titolo stesso, passando per la copertina (che sarà sottoposta a censura) rappresentante un bagno nella quale vasca è presente una coppia di persone intenta a fare l’amore (nella famosa censura le persone vengono o schiarite per essere rese irriconoscibili, o tolte del tutto, in modo che rimanga solo il bagno), per arrivare al non meno importante, anzi, sound. Viene infatti un po’ persa la concezione di “pulizia strumentale” (peraltro sempre presente, anche se in maniera nettamente minore), che era poi l’aspetto migliore di Phenomenon, per un sound più grezzo, sempre molto tecnico (e come non potrebbe esserlo con Pete Way e Michael Schenker  in formazione) ma più “sporco” nel suo insieme, così da creare un atmosfera molto elettrica e rude, anche se forse meno briosa nel suo complesso. Anche le canzoni in sé sono molto schematiche, ma non risultano mai  né noiose, ne tantomeno scontate. Buona anche la voce di Mogg, mai esagerata, ma in grado come non mai di proporre soluzione stilistiche di vario tipo.
L’opener di “Force It”, titolata “Let it Roll”, dimostra subito la pasta generale del disco,  presentandosi con distorsioni di chitarra che lasciano spazio ad un andante estremamente ritmato, grazie soprattutto ad un eccellente basso. Spettacolare il totale cambio di melodia nella parte centrale della canzone, che diventa un lento e magistrale assolo chitarristico, per poi tornare sui binari della rapidità verso la fine. Estremamente positivo Mogg, sempre sulle sue tonalità vocali, ma con una stilistica di canto quasi “Plantiana” se così la vogliamo chiamare per le somiglianze col tipico stile del vocalist dei Led Zeppelin. Ben fatta e sui medesimi canoni pure la seconda traccia, intitolata “Shoot Shoot”. Abbiamo quindi uno scorrere decisamente cadenzato e piacevole, una ottima chitarra in tutti gli assoli e riffs di sottofondo, e un Phil che torna al suo classico cantato. Canzone decisamente in controtendenza allo stile dell’album è invece “High Flyer”, pezzo lento e dotato di un atmosfera incredibile, in quanto rapisce subito, ma prende sempre più con lo scorrere della canzone. Essendo una ballata il sound torna ad essere quanto di più limpido ci si possa aspettare, con un grandioso Schenker, protagonista assoluto del suonato. Decisamente ispirata sia la voce portante che le backing vocals, sempre al posto giusto nel momento giusto, fantastico. Ritorno al dinamismo con la splendida “Love lost Love”, che si presenta subito con una intro pirotecnica, per poi lasciarci a degli azzeccatissimi riff conduttori di un mid tempo decisamente “heavy” nella sonorità, dura ma per nulla aggressiva. Da segnalare il buon uso delle voci secondarie, molto utilizzate anche nelle strofe, oltre che nell’immancabile ritornello. Belli i 3 assoli, uno iniziale, uno centrale, e uno a conclusione della track. Una veloce e leggerissima batteria, accompagnata da un docile basso e una ottima melodia di piano ci portano subito nel cuore di “Out in the Street”, traccia che ripropone la medesima melodia fino all’irrompere (dopo circa un minuto) di un riff secco ma che si sposa col resto della canzone in modo praticamente perfetto. Ennesima ottima song quindi (piuttosto lunga tra l’altro, per i canoni dell’album), il quale unico difetto potrebbe essere una certa andatura monocorde, che però nulla toglie all’eccellenza compositiva del gruppo. Da tale andatura va tolto l’assolo, una vera e propria scarica elettrica ricca di virtuosismi. In pompa magna l’inizio (e il resto) di “Mother Mary”, con una chitarra ritmica subito produttrice di giri aggressivi e secchi, sui quali ricama una lead guitar dalle folli ed isteriche rifiniture. Questa aria di potenza si smorza del tutto al pronunciare delle parole “Mother Mary”, per poi riprendere senza incertezza alcuna. Non un grandissimo basso ma una più che decente batteria accompagnano il pezzo fino alla fine, quando questi fa spazio a “Too much of Nothing”, forse la canzone con l’intro migliore del lotto, ma anche il resto non scherza. Trattasi di un sontuoso e grottesco mid tempo, estremamente cupo, con un basso e una batteria oscuri (nonché suonati davvero bene), che lasciano una ambigua sensazione di attesa, che svanisce nel relativamente brioso  (e forse un attimo rivedibile) ritornello, che lascia comunque non del tutto ambientati. Geniale ancora la chitarra elettrica, creatrice di vera adrenalina con le sue improvvisate comparse.  Non mi piace fare paragoni impossibili, ma per rendere l’idea le sensazioni che provo sentendo le strofe di questa “Too Much of Nothing” sono simili a quelle che ho ascoltando l’intro di “Horrorscope” degli Overkill, pur trattandosi di canzone totalmente differente. Ritorno ad una maggiore allegria e al rock blueseggiante con “Dance your Life Away”, altro mid tempo, più rapido del precedente, che si presenta con un’ottima combinazione strumentale (ulteriormente enfatizzata con l’ingresso successivo delle tastiere) che sembra incitare l’ascoltatore a un vero e proprio moderato dimenarsi (così come titolo suggerisce). Basso sempre protagonista, buona batteria, e solito sporco riff chitarristico sullo sfondo. Il brano si chiude in fade, lasciando spazio all’ultimo componimento, il più lungo, presente su questo quarto disco degli UFO, titolato “The Kid’s including Beetween the Wall”. La song è una vera e propria fusion di due canzoni, la prima esplosiva, con un Michael Schenker a sfornare sonorissimi riff, accompagati dall’ottimo Way, la seconda molto più pacata e tranquilla. Si inizia come detto con un mid tempo estremamente sonoro, non di facilissima assimilazione, ma decisamente ispirato. Stupefacente l’uso del pianoforte sullo sfondo, che dà un vero e proprio tocco di classe, specie al lungo assolo, con le due chitarre in contrapposizione, una quadrata e granitica, l’altra sbarazzina e pirotecnica. Proprio col lungo assolo si chiude la parte “stoner” della song, per passare ad una musica dolce e paradisiaca, basata su un delicato arpeggio a cui si sovrappone una placida tastiera che ci porta ad un secondo assolo, di tutt’altra pasta dal primo.
La seconda sottosong, tutta strumentale, si chiude con un fade che volendo la enfatizza ancora di più, e cala il sipario su un disco decisamente differente dal suo predecessore, ma davvero geniale, che merita sicuramente di essere messo tra i migliori lavori degli UFO, nonché tra i masterpieces del Rock anni settanta.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Let it Roll
2) Shoot Shoot
3) High Flyer
4) Love lost Love
5) Out in the Street
6) Mother Mary
7) Too Much of Nothing
8) Dance your life away
9) The Kid’s including Beetween the Walls

 

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