Recensione: Forever Gone
Folgorato dall’ “illuminazione oscura” durante uno show dei Black Sabbath a Baltimora (tour di “Paranoid”), Scott “Wino” Weinrich è, insieme a Bobby Liebling dei Pentagram, Lief Edling dei Candlemass, Dave Chandler dei Saint Vitus e pochi altri, uno di quei “Caronte” a cui si deve il merito di aver traghettato la componente più plumbea del sound del quartetto di Birmingham fino ai giorni nostri, influenzando più generazioni di musicisti.
Nel 1978 Wino dà vita a quella che sarà, a tutti gli effetti, la sua creatura di maggior rilievo: i seminali Obsessed con cui, nel ruolo di cantante e chitarrista, apporterà un contributo fondamentale alla definizione dei canoni stilistici dello stoner/doom americano. Il loro sound incorpora riff sabbathiani, acid rock (Blue Cheer) e psichedelia, fusi con un’attitudine DIY tipica del punk hardcore di quegli anni che procurerà a Wino la stima e il supporto di personaggi di primo piano di quella scena (come Henry Rollins dei Black Flag e Ian MacKeye di Minor Threat e Fugazi). Altro passaggio cruciale nella carriera del cantante/chitarrista del Maryland è la militanza nei Saint Vitus, padrini del doom metal a stelle e strisce: tra il 1986 e il 1990 si occuperà delle linee vocali di tre loro album, tra cui l’indiscusso capolavoro “Born Too Late” (rientrerà poi in formazione tra il 2008 e il 2015, partecipando alla realizzazione di “Lillie: F65”).
A partire dalla metà degli anni Novanta Wino fonda nuove band (Spirit Caravan, The Hidden Hand, Premonition 13), si dedica a numerose collaborazioni di spessore, tra cui gli Shrinebuilder con Al Cisneros (OM), Scott Kelly (Neurosis) e Dale Crover (Melvins) e il progetto folk/rock con il cantautore tedesco Conny Ochs, e rimette in pista gli Obsessed, pubblicando nel 2017 “Sacred”.
Il significativo numero di band e progetti citati testimonia un percorso certamente costellato da picchi artistici, ma caratterizzato, al contempo, da un’instabilità che rispecchia l’esistenza tormentata del rocker, piena di turbolenze e ricadute nelle dipendenze. Ma, come nelle migliori storie, Wino ha sempre saputo rialzare la testa e andare avanti, arrivando così al rilascio, via Ripple Music, del terzo episodio della sua carriera solista, presentato nelle note introduttive del booklet come la realizzazione di un sogno che incornicia una fase finalmente serena della sua vita.
“Forever Gone”, un disco acustico (con sporadiche incursioni di chitarra elettrica, basso e batteria) che calca i solchi della tradizione del rock/folk americano che va da Johnny Cash a Townes Van Zandt, è una sorta di compendio della poetica di Wino e del suo tragitto artistico e personale.
Quattro delle dieci track proposte sono estratte dai due full-lenght frutto della collaborazione con Conny Ochs: se “Dead Yesterday” e “Crystal Madonna” sono riproposte in versioni molto simili alle originali, con i soli arrangiamenti di chitarra acustica a sostenere le storie narrate da Wino, “Forever Gone” e “Dark Ravine” trovano qui una nuova dimensione: la prima, arricchita da una linea di basso e privata dei morbidi cori di Conny Ochs (certe volte less is more…), suona decisamente più profonda e spigolosa, mentre la seconda si sviluppa in modo più dinamico grazie all’introduzione della sezione ritmica (Brian Costantino alla batteria e Brian White al basso).
E poi gli inediti: “Taken”, il pezzo migliore dell’album per chi scrive, è cupa e intrisa di disperazione: se fosse arrangiata con strumenti elettrici e distorti suonerebbe come uno oscuro doom. Si passa poi dalla minimale “The Song Is at the Bottom of the Bottle” (dedicata a Mark Adams, bassista dei Saint Vitus) al rock ‘n’roll semiacustico di “So Fine”. “Lavander and Sage” e “Was, Is and Shall Be”, altre due perle di purissimo folk rock, conducono alla chiusura del disco sulle note di “Isolation” dei Joy Division: non è banale avventurarsi in riproposizioni di pezzi di tale calibro, ma la cover, suonata da una band al completo, sortisce il suo effetto grazie al netto contrasto stilistico con quanto ascoltato sinora.
E’ doverosa una menzione per la performance tecnica di Wino che, con la (quasi sempre) sola chitarra acustica, costruisce strutture ricercate, fondate sul delicato equilibrio tra suono e pause e sull’alternanza tra passaggi abrasivi e fraseggi tenui. I testi introspettivi guardano alla lunga strada percorsa, agli errori e ai fallimenti così come alle gioie e all’amicizia: non traspare alcun rimorso, ma piuttosto la capacità di scrutarsi dento con una serenità che solo la maturità può assicurare.
Con “Forever Gone”, Scott Weinrich inserisce un’altra gemma di valore nella propria discografia, confermando la definizione che con gli amici abbiamo affettuosamente coniato per lui e che ripetiamo ogni volta che lo vediamo suonare dal vivo: un fottutissimamente grande rocker americano.