Recensione: Forgotten Days
Nel loro album di commiato, “The Last Spire” del 2013, i Cathedral inserirono un pezzo intitolato “Pallbearer”. Allora in molti lessero quel gesto come una sorta di passaggio del testimone, come se i padrini britannici volessero consegnare la torcia del doom, e in un certo senso la propria eredità, a una giovane band dell’Arkansas, per l’appunto quei Pallbearer che l’anno prima avevano esordito con l’ottimo “Sorrow and Extinction” (uscito su Profound Lore Records). Solo Lee Dorrian e Gaz Jennings potrebbero confermare la correttezza di questa interpretazione, ma quel che è certo è che da allora i Pallbearer hanno fatto molta strada, pubblicando altri tre album e dedicandosi a un’incessante attività live.
Il succitato debutto, sebbene già incline a contaminazioni, rimaneva musicalmente fedele ai canoni del doom, ma non alla sua estetica. Il gruppo, infatti, si è sempre tenuto distante dai simbolismi esoterici e religiosi, così come dalle tematiche occulte e dai riferimenti lovecraftiani tipici del genere, incentrando le proprie liriche su vissuto personale, sentimenti ed emozioni. Se con il successivo “Foundations of Burden” (Profound Lore Records, 2014) il quartetto di Little Rock ha affinato la proposta del suo predecessore senza discostarsene sensibilmente, in “Heartless” (Nuclear Blast, 2017) si è lanciato con decisione in digressioni post metal/rock, alternative e progressive, insinuando in alcuni il timore che i ragazzi si stessero allontanando eccessivamente dalla via lastricata da Iommi & Co. a favore di soluzioni più accessibili.
L’opener di “Forgotten Days”, anch’esso uscito per Nuclear Blast, sgombra il campo da ogni dubbio: dopo una breve intro noise/drone, nella title track si fa strada un riff “crushing doom” che suona come una dichiarazione d’intenti: senza rinunciare al loro personalissimo approccio al genere, i Pallbearer sono tornati per reclamare il posto che spetta loro di diritto sul podio del modern doom americano. Dopodiché il talentuoso chitarrista Devin Holt guida il pezzo in articolazioni strumentali dal sapore prog per poi dirigerlo verso le atmosfere plumbee del finale. La successiva “Riverbed” cambia decisamente rotta, ma senza mettere a repentaglio gli equilibri dell’album: è un post metal in cui le delicate linee vocali di Brett Campbell assumono tinte alternative rock, in quella che è forse la migliore prestazione del vocalist ad oggi sentita.
Procedendo in ordine sparso troviamo ottimi pezzi di matrice doom, in linea con i primi lavori della band. Se “Stasis” e “The Quicksand of Existing” sono dirette e rocciose, “Vengeance & Ruination” e “Rite of Passage” risultano meno spigolose per via del cantato melodico che fa da contraltare alle tonanti ed elaborate sezioni strumentali. Ci sono poi due brani in cui, come nella opener, i Pallbearer dimostrano pienamente la loro capacità di comporre pezzi articolati e in continua evoluzione. “Silver Wings”, nei suoi oltre dodici minuti, passa dall’iniziale registro post metal/doom allo sludge della sezione centrale, a cui seguono assoli di chitarra melodici che traghettano il pezzo verso il finale, in cui sintetizzatori e cori soavi creano un’atmosfera ambient. In “Caledonia”, il passaggio più morbido del disco, le influenze progressive appaiono limpidamente: dalla struttura complessa alle elaborate trame strumentali, fino ai repentini cambi di tempo e mood.
Con “Forgotten Days” i Pallbearer sono tornati al sound più ruvido degli esordi, in cui hanno fuso armoniosamente stili differenti, definendo una proposta così personale da rendere difficile la comparazione con altre band. Le composizioni, mediamente più brevi di quelle dei suoi predecessori, evidenziano un’accresciuta maturità nel songwriting e la capacità di drenare le idee e condensarle in pezzi che, ad eccezione di un paio di episodi, rimangono al di sotto dei setti minuti. La produzione di Randall Dunn (Sunn O))), Earth), uno dei professionisti più stimati della scena, è di per sé una garanzia: moderna, cristallina e mai ingombrante. Interessante anche l’artwork ad opera di Michael Lierly, fratello del batterista Mark: un’immagine espressionista che riesce a incanalare la forte componente emotiva e la drammaticità di cui questa musica è pregna.
Questo lavoro conferma come i Pallbearer siano una delle realtà più interessanti che la scena doom statunitense ha prodotto nell’ultimo decennio e, ancora più importante, come il doom non sia affatto quel sottogenere stantio, refrattario al cambiamento e pieno di clichè come a volte viene dipinto da chi non lo capisce, ma come, al contrario, sia una delle forme più pure di heavy metal che, consapevole del proprio status, non ha paura di ibridarsi con altri generi e tentare di muoversi lungo nuove direttrici.