Recensione: Forgotten Dreams
“Salem? Di sicuro, è un gruppo che fa black o roba simile… no, aspetta un attimo, ma questi…”
Dite la verità: chi di voi sentendo un monicker come questo non ha pensato a qualche oscuro complesso scandinavo o gruppo della scena estrema? Forse non tutti ma di sicuro molti.
Monicker di questo tipo danno adito, spesso e volentieri, a qui pro quo, forse per il semplice fatto che molte bands della NWOBHM assumevano nomi legati alla cabala o all’occulto, con l’intento di dare un piglio trasgressivo e d’impatto (o misterioso) al proprio complesso.
Tra le bands dal nome “oscuro”, i Salem (melodici e per nulla black o Venom oriented) rappresentano uno degli acts che non riuscirono a concretizzare i propri sforzi in un LP di debutto, rimanendo relegati al ruolo di outsider, destino comune a innumerevoli complessi della suddetta ondata britannica.
Il nucleo originario dei Salem nasce per mano di Paul Tognola e Paul Conyers, ex-membri degli Ethel The Frog, complesso che aveva contribuito con un brano alla mitica compilation “Metal For Muthas”, insieme ai sempreverdi Iron Maiden e agli eroi Samson (senza dimenticare Praying Mantis e i tenebrosi Angelwitch). Dopo alcune esibizioni e la pubblicazione di un EP (“Cold As Steel/Reach To Eternity”, 1982), i Nostri si sciolgono prematuramente.
La reunion giunge nel 2010, in seguito alla pubblicazione della raccolta “In The Beginning…” (contenente estratti ed inediti dell’epoca) ad opera della High Roller Records e Pure Steel Records, labels attive nel campo grazie al rinnovato interesse per la NWOBHM.
Quale occasione migliore, dunque, di risorgere a nuova vita, occasione che i Salem non si sono lasciati sfuggire, assieme ad altri reduci della New Wave, quali Tokyo Blade e Satan.
Il rientro nelle scene è annuciato dagli EP “New Tricks” e “X-Rated” e celebrato, pochi mesi dopo, con questo “Forgotten Dreams”, probabilmente il primo vero studio album della formazione inglese.
Rinnovata vitalità e vecchia scuola si incontrano nella title track, che, non a caso, ricopre il ruolo di opener, quasi a sintetizzare coordinate e curriculum musicali del combo: l’alchimia del passato, infatti, emerge prepotentemente dall’incedere sferragliante delle chitarre e dai vocals corali.
La progressione serpeggia snodandosi in un riff orientaleggiante mentre un assolo rallentato indugia, trasportandoci nel profondo dei “sogni dimenticati”. Ben presto, l’avanzare del ruvido main guitar ci risveglia dal sonno, giusto il tempo per riprendere conoscenza e cantare ancora una volta il chorus, appagante nella sua immacolata spontaneità.
Ancora voglia di vecchio, caro heavy nella drammatica “High Stakes” e nell’appassionata “When Love Is In Your Heart”.
La melodia di “High Stakes”, costruita su assoli alti e teatrali, trova la propria guida nella voce di Simon Saxby, novello Biff Byford. Da non sottovalutare il senso di inquietudine che è perfettamente trasposto nelle avviluppanti scale, intrise di un gusto neoclassico decadente, riletto in chiave NWOBHM.
“When Love Is In Your Heart” ripesca le bordate della prima New Wave e aggiunge, oltre alla carica della Vergine di Ferro, la forza emotiva del coro, abile nel creare un cutting melodico da cantare a squarciagola. La ritmica, dal canto suo, è una doverosa citazione dei padri putativi Judas Priest. Immancabile l’appuntamento con gli alfieri di questo credo, i vibrati, che sanno scaldare il cuore di ogni defenders.
Ed ora un pezzo dinamico, dal retrogusto tra il dolce e l’amaro, “This Heart Is Mine”. Un triste arpeggio incomincia a diradarsi allorchè la chitarra subentra provocante: un pezzo inusuale e, tuttavia, riuscito, diviso tra duri innesti hard e soluzioni acustiche semplici ma d’effetto. In questa tenebra ciò che risplende è l’arco melodico che le chitarre disegnano intrecciando i vibrati gemelli.
Da questo momento in poi, il cammino dei Salem nel mondo dei sogni non è privo di sussulti, mostrando segni di cedimento e un titolo inusuale come “Kazakafnu” lo fa presagire: il brano riprende la passione per l’iconografia del Sol Levante (Tokyo Blade, Shogun, Samurai), creando un up tempo arricchito da brevi accelerazioni e distorsioni. L’andamento è insolito come il titolo della canzone: gli sforzi profusi, tuttavia, non riescono a mantenere l’hype alimentato dai precedenti brani, relegando la song al ruolo di incompleto o parziale filler.
La successiva “The Answer” ci riporta sulle veloci hooklines dell’heavy metal (sempre dallo spiccato mood melodico): purtroppo, i Nostri perdono terreno a causa di un chorus inefficace, dove la parola del titolo diventa un pedante accompagnatore e la sei corde non fornisce la spinta decisiva, rimanendo tra le quinte mentre ripete lo stesso pattern. Non migliora l’impatto generale l’intercalazione del guitarwork che, nel tentativo (condivisibile) di aggiungere nuove armonie, alla fine, ottiene l’effetto contrario, divincolandosi in maldestri incisi (vagamente orientaleggianti).
La quinte essenza maideniania non poteva mancare all’appello e qui si presenta nelle vesti di “Reach To Eternity”, cavallo di battaglia dei primi Salem, eseguito rigorosamente secondo i dettami del british metal: tempi veloci, vibrati gemelli acuti e basso galoppante consacrato da Steve Harris.
Dopo un’amarcord come “Reach To Eternity”, “The Best Is Yet To Come” risulta un elemento quasi estraneo nella proposta del combo: la song in questione non è altro che un lento acustico, da cui traspare una certa dose di ottimismo americano, che non si adatta perfettamente alla proprosta del platter (sia in termini testuali che di sonorità). Una strizzata d’occhio al mercato statunitense? Non possiamo escluderlo… ma gli estimatori della NWOBHM potrebbero dissentire da questa opinabile aggiunta.
Alla divagazione introdotta da “The Best Is Yet To Come”, cerca di rimediare l’insolito refrain di “X-Rated”, dove l’orgoglio del metal defender viene rinvigorito dalle partiture vibranti della chitarra, capace di snodarsi in lunghi assoli onirici e magnetici, attraverso un accompagnamento tradizionale. I backing lascivi e una struttura inframezzata, quasi a singhiozzi, tuttavia, non riescono a incollare alle cuffie il truemetaller, complice la mancanza cronica di un cliffhunger memorabile (chorus o guitarplay antemico che sia).
“Break The Chains” sembra riavvicinarsi ai lidi più tranquilli e soleggiati di “The Best Is Yet To Come”, finchè un vigoroso accordo ci scuote dal profondo torpore. Rimarrete, tuttavia, atterriti quando comprenderete che di heavy, in questa song, non c’è nemmeno l’ombra: anzi, i vibrati e la linea melodica si spostano sulla tangenziale del rock d’oltreoceano, impostando un coro piacevole ma troppo vellutato e diafano per il metaller medio. E non può essere diversamente, con i delicati trastulli della chitarra acustica che sfumano, salutandoci in lontananza…
Le tenebre calano e possiamo indossare nuovamente borchie e giubbotto di pelle con “Ask The Lonely” e “Aftershock”: “Ask The Lonely” genera emozioni come solo i Saxon più adrenalinici sapevano fare, premendo l’acceleratore su cori melodici ma ruvidi, consegnandoci ottime armonie vocali da cantare in tribuna. Insomma, la perla nera dell’album.
Si presenta più meditata e sofferente la notte di “Aftershock”: i tristi rintocchi d’apertura solcano l’aria ma il protagonista indiscusso è il coro carico di dolore, che si leva sulle note di grezzi accordi. “Aftershock” procede tra plumbei midtempos e veloci incursioni, che trovano l’apice negli acuti della chitarra.
Giunti alla fine di “Forgotten Dreams”, possiamo tranquillamente elogiare la presenza di ottimi amarcord, alcuni dei quali personali e tutto sommato ben scritti ma non possiamo tralasciare momenti un po’ raffazzonati ed episodi non integrati al meglio con la proposta (vecchia e nuova) del combo.
D’altronde, sembra che dopo la terza traccia, a parte alcuni intervalli, i Salem perdino la rotta, andando alla deriva verso sonorità con cui il vecchio metallo ha poco da spartire.
Sonorità non sempre azzeccate, né eclatanti, seppur piacevoli, che, lacunose d’idee, rimarranno nel dimenticatoio, anche solo per la natura del genere (che, come sappiamo bene, è generalmente di nicchia, quindi rimangono inspiegabili alcune scelte di registro…).
Pesa, inoltre, una certa mediocrità in sala di registrazione, ormai, quasi un marchio di fabbrica che la New Wave si trascina da tempo immemore: certo, non si tratta di evidenti problemi di mixaggio o di una qualità scadente (i tempi sono passati) ma il suono risulta freddo e povero, dando una sensazione forzatamente retrò, voluta o meno, questo non lo sappiamo.
Non poteva mancare l’ennesima, misera cover (per di più disadatta alle tracks segnalate come “poco appropriate”), piaga di molti nuovi dischi di vecchie glorie dell’underground metallico (vd. Tokyo Blade), una maledizione che perseguita, salvo rari ed illustri casi, l’ondata britannica da quando è nata (durante il cui periodo uscirono copertine inguardabili, al limite del “fai da te”…).
Detto questo, potreste giungere alla ovvia conclusione che “Forgotten Dreams” sia un prodotto destinato eclusivamente ai nostalgici in cerca di sonorità oldies, genuine e prive di effetti mirabolanti: questo è giusto solo in parte perchè “Forgotten Dreams” è proprio per chi ha perso i preliminari ed è nato e cresciuto a suon di voci femminili ammiccanti e virtuosismi talvolta stucchevoli, imbottito da growling o face painting a scelta.
Eric Nicodemo
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