Recensione: Forgotten Paths

Di Stefano Usardi - 21 Marzo 2019 - 10:00
Forgotten Paths
Band: Saor
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2019
Nazione:
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78

Quarto album per i Saor, (“libero” in gaelico scozzese) one-man band scozzese che, a sei anni dalla fondazione e a tre dal precedente “Guardians”, pubblica questo “Forgotten Paths”. Il genere, definito dallo stesso fondatore Andy Marshall Caledonian Metal, altro non è che un black metal atmosferico intriso di folk e screziato qua e là da melodie suadenti e rarefatte. Niente di nuovo sotto il sole, per la verità, ma va dato atto a Marshall e alla sua corpacciuta corte di turnisti di aver composto un lavoro emotivamente impressionante, intenso ma al tempo stesso elegante, capace di miscelare con abilità e gusto gelide folate di chitarra, melodie tenui e sussurranti, passaggi romantici e carichi di pathos e una certa epicità latente, creando così un vortice sonoro sentito ed emozionante. Senza contare, naturalmente, l’amore del mastermind per la sua terra e la musica che la pervade. L’eredità scozzese di Marshall, infatti, affiora in più di un’occasione durante l’ascolto, sia dal punto di vista meramente musicale che da quello, diciamo così, emotivo ed atmosferico: non è raro sentire, tra un riff e l’altro, una linea melodica che richiama la musica tradizionale scozzese, colorando questo o quel passaggio con i suoi toni ora scanzonati e ora mesti. I Saor sfruttano bene le caratteristiche del black atmosferico, tanto che il continuo gioco tra stati d’animo apparentemente opposti, ottenuto grazie alla contrapposizione tra melodie solari e atmosfere più raccolte e malinconiche, costituisce uno dei punti di forza di “Forgotten Paths”: archi e fiati si amalgamano molto bene al comparto prettamente metal, creando un lavoro omogeneo, personale e molto scorrevole. Essendo comunque un album che si appoggia ad una base strumentale black metal, non mancano ovviamente le tipiche raffiche gelide di chitarre e batteria, ma alla cieca dimostrazione di furia ferina i Saor preferiscono un approccio maggiormente meditativo, in cui le vertiginose accelerazioni tipicamente black metal vengono sfruttate per veicolare stati emotivi più suadenti, maestosi e a tratti addirittura romantici. “Forgotten Paths” consta di quattro tracce, per un minutaggio totale di poco meno di quaranta minuti: mentre le prime tre, della lunghezza media di undici minuti, si articolano su diversi livelli per merito delle ripetute stratificazioni sonore, l’ultima traccia, una strumentale di cinque minuti scarsi, si regge unicamente su una dolce melodia d’arpa, sfruttando la sua semplicità per congedarsi dai fan e permettere di scaricare la tensione emotiva accumulata fin qui. Nonostante la breve durata complessiva, “Forgotten Paths” arriva esattamente dove vuole, senza perdersi per strada con inutili riempitivi ma andando dritto al sodo, pur non lesinando fraseggi ricercati e ripetuti cambi atmosferici.

L’album si apre con la carica iniziale della title track: melodie fredde e maestose si appropriano della scena, sostenute da chitarre taglienti e una batteria agile. L’ingresso in scena del violino e il concomitante assestamento su ritmi meno frenetici sfuma la composizione di una nuova solennità, salvo poi cedere terreno a un arpeggio acustico rilassato e suadente. La furia ferina del black torna all’improvviso, senza perdere mai, però, i profumi maestosi incontrati in precedenza. L’improvviso ingresso in scena del piano scompagina le carte, diffondendo una foschia malinconica e sognante che si addensa sempre più grazie all’aggiunta della voce pulita e del resto degli strumenti. L’aria si carica sempre più di pathos, salvo poi sfumare lentamente nella melodia più pacata e bucolica che chiude la traccia. Con la successiva “Monadh” la cappa di malinconia che permea l’aria si fa ancor più densa, opprimente; a poco a poco il brano prende corpo, acquista slancio e drammaticità fino al rallentamento centrale trionfale. Qui l’enfasi raggiunge il climax salvo poi sfumare, come accaduto alla traccia precedente, in un arpeggio acustico delicato e sognante. Di nuovo, la traccia torna a prendere corpo, ripetendo la melodia portante con sempre maggiore trasporto fino a sfumare nel finale e far spazio a “Bròn” in cui, fin dai primi secondi, si capisce che qualcosa è cambiato: una nota di minaccia elettrizza l’aria, che in un attimo si carica di foga battagliera senza rinunciare all’enfasi trionfale. Il violino ricama melodie solenni mentre gioca a nascondino con le chitarre, sgusciando tra un riff e l’altro, donando epicità e preparando la strada all’entrata a effetto della voce di Sophie Rogers che si amalgama al tappeto strumentale, senza sovrastarlo ma senza essere sovrastata a sua volta dalla tempesta di riff. Il rallentamento non fa altro che sottolineare l’epica maestà del pezzo, inserendo nell’impasto un insistente profumo di Highlands. Una nuova folata gelida si abbatte sulla composizione, spezzando l’incanto fino al ritorno della voce pulita e della pacata grandeur delle melodie. Il finale compassato si distende languidamente, riverberando il mood velatamente inquieto che aveva caratterizzato l’apertura della canzone. “Forgotten Paths” è chiuso da “Exile”, delicata e malinconica strumentale dal retrogusto bucolico in cui l’arpa diviene padrona della scena e tesse la sua magia fatta di melodie fiabesche, eteree e sognanti, ponendo così il sigillo su un album atmosferico e dal valore indiscutibile, che compensa la breve durata con una densità emotiva di tutto rispetto risultando, in ultima analisi, suggestivo ed emozionante.

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