Recensione: Forhist

Di Manuele Marconi - 25 Febbraio 2021 - 14:38
Forhist
Band: Forhist
Etichetta: Debemur Morti
Genere: Black 
Anno: 2021
Nazione:
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70

I Forhist sono la nuova creatura di Vindsval (Blut Aus Nord, Yeruselem), nata con l’intento di rievocare nell’ascoltatore la sensazione di una passeggiata solitaria nei boschi profondi, e in qualche modo tornare spiritualmente ad una dimensione più originaria del black metal. L’album omonimo pesca infatti da fonti ideali ben dichiarate: viene annunciato come una commistione di atmosfere da “Panzerfaust” dei Darkthrone, “The Shadowthrone” dei Satyricon e “Hvis Lyset Tar Oss” di Burzum. Robetta da sagra dell’uva insomma.

L’idea è stuzzicante, seppur ambiziosa: andare a toccare dichiaratamente tre mostri sacri punta immancabilmente i riflettori sull’opera, ma la sottopone in maniera ugualmente inevitabile ad analisi basate su confronti con essi, pur sempre senza la pretesa di eguagliarli, o addirittura superarli. Un rischio, questo, che rende sicuramente onore al progetto, che non vuole assolutamente innovare. In questa sede non si cercano sperimentalismi o trovate geniali, si vuole solo riunire in un’unica soluzione tre vie che in passato hanno tanto esaltato il pubblico.

L’album si esprime nei 42 minuti della sua durata in maniera abbastanza fluida, rimanendo quindi fruibile all’ascoltatore, che spesso viene riportato in contesti atmosferici stimolanti.

L’opener parte con un cinguettio di uccelli, che accompagna l’ascoltatore verso l’ingresso del “bosco” delineato dal complesso all’interno della composizione: l’entrata sonora della band trasmette in maniera efficace la sensazione di aver varcato il confine fra un ambiente ameno ed un luogo di tenebra e caos. Brano piacevole, espressione di un black metal molto classico e soddisfacente, con tastiere sul finale molto azzeccate. “IV” rappresenta sicuramente il pezzo più riuscito del lotto: ottimo l’inizio stile Darkthrone e le tastiere che riportano invece alla creatura di Satyr. Brano atmosferico ma anche trascinante: si ferma per poi ripartire con un passo maestoso e pieno, regalando in cuffia un suono avvolgente. “VI” parte con un buon groove di batteria, ben accompagnato da un riff di chitarra pesante al punto giusto. Ottimo il cambio di tempo, che dona dinamicità al brano anche grazie al corretto tempismo di esecuzione. Qui l’atmosfera di “Panzerfaust” si respira molto, ma senza intaccare la qualità del tutto.

Quest’ultima precisazione risulta doverosa: ad onor del vero tutte e tre le opere citate come ispirazione si sentono all’interno del disco, il problema è che non vengono “omaggiate” tutte con la stessa qualità. In particolare la parte “Burzumiana” dell’album si sente molto, ma oltre a riportare il pensiero verso l’originale lavoro di Varg Vikernes non trasmette granché. I brani intrisi in maniera preponderante di questa influenza risultano ben suonati, prodotti coerentemente, ma un po’ piatti e anonimi, come fossero delle versioni demo del lavoro originale. Questo sporca in qualche modo la riuscita del full lenght, anche considerando che nei due casi ulteriori si centra sì l’obiettivo, ma senza mai arrivare a picchi qualitativi considerevoli: si galleggia costantemente fra il buono ed il “normale”.

La chiusura del lavoro con i cinguettii che l’hanno aperto è un elemento piacevole, che testimonia la volontà di creare un’opera coerente e curata nei dettagli, anche attraverso una produzione sempre all’altezza. L’esperienza di ascolto complessiva non è esente da difetti pur non essendo fallimentare. L’album “mantiene” le promesse e le premesse, regalando la sensazione e l’atmosfera desiderate contemporaneamente toccando gli stili e le influenze previsti, senza però riuscire a distinguersi in maniera particolare, pur rimanendo un lavoro apprezzabile e di buona fattura.

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