Recensione: Fortress
Dopo un intenso periodo durante il quale i componenti degli Alter Bridge sono stati impegnati in svariati progetti alternativi (dalla reunion dei Creed, ai dischi ed ai tour del cantante Myles Kennedy con sua maestà Slash, fino alla realizzazione del lavoro solista del chitarrista Mark Tremonti), la band statunitense dedita al post-grunge è tornata in studio per dar vita al suo quarto full-length, “Fortress”.
L’attesa per il successore di One Day Remains, Blackbird e ABIII era molto forte, visto il crescente consenso raccolto fino ad oggi dalla band; un consenso che le ha permesso di consolidare attorno a sé una devotissima cerchia di fans, pur senza mai farla arridere da quel successo totalmente mainstream che una certa propensione “commerciale” della loro proposta artistica farebbe ragionevolmente attendere, e che colse in pieno, invece, i Creed, band della quale facevano (fanno?) parte i tre quarti degli Alter Bridge.
L’apertura di Fortress, Cry of Achilles, spiazza un po’ l’ascoltatore, abituato al mix roccioso e denso di oscuro alternative-metal/post-grunge con spruzzate di thrash che li ha solidamente caratterizzati fino ad oggi: ad accarezzare i padiglioni auricolari vi è, infatti, un inizio di chitarra acustica latineggiante, alla quale segue un’esplosione epica che sconfina addirittura nel prog. Il brano si sviluppa poi dando spazio a suoni più familiarmente hard rock, nei quali sugli scudi si pongono l’accoppiata basso/batteria e la voce, sfavillante ed inconfondibile, di Myles, la quale delinea con sicurezza una coinvolgente melodia.
La successiva Addicted to Pain offre, invece, consueti e pesanti chitarroni elettrici, i cui riff ed i cui assoli conferiscono al brano un’ aura decisamente più metal, accompagnata dal drumming e dall’incalzare del quattro-corde sempre travolgenti e dal canto magistralmente efficace.
Bleed It Dry alterna momenti più decelerati a scalpitanti baleni heavy, mettendo in luce un four-piece compatto che assalta all’unisono l’ascoltatore, ma pure un assolo d’ascia sorprendentemente limpido.
Lover, invece, è uno slow delicato con tanto di chorus aperto ed avvolgente pienamente in linea con le istanze dell’alternative rock degli anni 90, mentre The Uninvited si apre con un inizio dalle inedite istanze rarefatte e psichedeliche, per poi esplodere in un hard & heavy sferragliante, avvincente e con sprazzi lancinanti.
Chitarre ruggenti – ma non troppo – condite da una melodia irresistibile nel ritornello contraddistinguono, altresì, il rocker Peace is Broken, una hit istantanea che si candida fin da subito a scatenare i cori entusiasti dei ragazzi nei prossimi concerti.
Calm the Fire, ancora una volta, offre un’apertura lenta, solenne ed evocativa sulla quale s’insinua un brano veloce dalle larghe aperture armoniche, e pure Waters Rising riproduce lo schema di un incipit rarefatto e arpeggiato che prosegue verso esplosioni hard rock, illuminate da saettanti riff di chitarra in un contesto, però, sostanzialmente da power ballad. Farther than the Sun, invece, pigia notevolmente l’acceleratore su riff granitici che trafiggono un brano metal il quale, però, non rinuncia, come sempre, al contributo decisivo della melodia.
La sezione ritmica scalpita e scalcia ancora in Cry a River, un altro incalzante e fulminante rocker, mentre All Ends Well, al contrario, naviga nei mari calmi di una ballata non priva di richiami roots
La conclusiva title-track, Fortress, rammenta, infine, quei toni oscuri, misteriosi ed evocativi peculiari del suono degli Alter Bridge, ma li corregge con sprazzi e fughe prog, e con le immancabili aperture di musicalità che mettono in bell’evidenza la voce del frontman.
Fortress consolida, insomma, la reputazione degli Alter Bridge quali magistrali alfieri di un rock radiofonico sebbene metallico, ruggente, tonante e roccioso. I quattro musicisti si confermano, così, come la formazione più sfolgorante ed equilibrata del genere a cui sono dediti. Il nuovo platter, invero, non stravolge in alcun modo il sound del combo statunitense, ma gli conferisce un ulteriore grado di maturazione, rendendolo appena un poco meno fosco del solito, e – sebbene lo lasci solidamente ancorato alle originarie istanze post-grunge – ponendolo un filo più vicino ad una certa classicità rock.
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