Recensione: Four Phantoms – Bell Witch
Tornano i Bell Witch a tre anni dal debutto: quel “Longing” che ha diviso nettamente critica e pubblico. Da una parte, i doomster più conservatori si sono espressi aspramente definendolo “doom per hipsters”, dall’altra la stampa del settore e i fan più aperti non hanno potuto che elogiare le qualità immense del duo di Seattle, capaci di mescolare in modo perfetto la pesantezza e la maestosa brutalità del Funeral Doom con un’atmosfera di sacralità e un tocco Blues abbastanza unico nel genere che difatti li ha fatti schizzare al vertice delle preferenze in campo Funeral. Ben lungi dal sembrare fittizia o incoerente l’anima Delta dei Bell Witch si presenta come una concreta evoluzione del genere, una traslazione moderna e deformata dei canti di dolore che ne mantiene intatta la tematica principale.
Four Phantoms parte dalla stessa tradizione di dolore e tormento.
Quattro spiriti sono condannati a rivivere incessantemente gli ultimi istanti delle loro vite, ognuno di essi narra la sua storia nei quattro pezzi che compongono il disco.
A livello musicale non siamo lontani da Longing e la sua struttura monotematica, che creava un gran senso di continuità e di “opera” aumentando di molto la sensazione di oppressione data la rituale ripetitività del giro di accordi. In Four Phantoms anche se ogni pezzo si snoda su binari e accordi diversi la netta sensazione di “dejavù” (in senso positivo) è comunque presente, lo stile dei Bell Witch è decisamente omogeneo e le loro capacità compositive sono rimaste sulla stessa falsariga degli esordi, ma il lavoro di limatura è stato enorme, sopratutto sulle parti atmosferiche (Garden Of Blooming Ash).
Nettamente più pesante del predecessore, con molta più melodia ma un carico di angoscia triplicato e una preponderanza dell’elemento Blues (Somniloquy), Four Phantoms è, senza troppi problemi, uno dei dischi Funeral Doom più belli della storia.
Commovente, umano, sincero, e al contempo sacrale, maestoso, sublime.
Le parti vocali, curate fino all’inverosimile, mostrano dei cori a voci incrociate di tradizione gregoriana contrapposti ad uno scream disumano e un growl non da meno, che rendono le sezioni più pesanti dell’opera (Felled) sentite e molto molto emozionanti, immerse in una brutalità che sa più di disperazione che altro.
Chiunque sia in cerca di un’esperienza musicale raffinata in ambito Doom troverà pane per i suoi denti, se odiate il “doom per hipsters” allora forse è meglio se tornate ai vostri Thergothon.