Recensione: Fracture
A tre anni di distanza dal buonissimo “Hate Parade”, tornano sul campo i Nerve con il terzo full-length “Fracture”. Un campo in cui, ormai, la leggendaria scuola genovese del metal estremo mostra la sua competitività non solo a livello italiano ma, anche e soprattutto, a rango internazionale.
Del resto, Fabio Palombi e i suoi compagni d’avventura hanno già fatto vedere di che cosa siano capaci: benché la formazione sia nata nel 2007, e quindi solo pochi anni fa, essa esterna qualità tanto poco comuni quanto certe e indiscutibili.
Una forza di coesione tremenda, innanzitutto, che lega assieme i singoli membri; fautori di un sound spaventosamente compatto, dolorosamente pesante. Un macigno di dimensioni enormi che si piazza sullo stomaco premendo la cassa toracica con l’energia derivante da una perizia tecnica eccezionale. Utilizzata dai Nostri non certo per vanità o autocelebrazione ma per addensare con la precisione di un neurochirurgo un suono dall’altissimo peso specifico, devastante, lindo e pulito come raramente è dato di ascoltare. Quando si viaggia su tali valori di decibel è facile scivolare nel disordine o addirittura nel caos, tuttavia ciò non accade mai in ciascuno dei trentotto minuti di durata del platter.
Un’altra qualità che emerge da “Fracture”, che del resto non si pone come novità dell’ultimo momento, è la personalità. Difficile stabilire una definizione calzante per lo stile dell’ensemble ligure. Thrash e death si mischiano vorticosamente, miscelandosi in modo quasi equo se non per dirigersi, appena percettibilmente, in direzione del secondo dei generi citati, seppur alla presenza di un deciso groove post-thrash che permea come un gas ogni poro del disco. Lo straziante semi-screaming di Palombi, che di rado assume le sembianze del growling, strappa letteralmente la pelle di dosso per la sua stentorea aggressività, mantenendo inalterato, o quasi, il timbro vocale naturale. Sì da distinguerlo con una certa facilità dalla moltitudine di ugole che agitano monotonamente l’universo death/thrash. Ermal Zaka dilania le carni con l’imponente, impressionante wall of sound eretto da un riffing senza pecche, discernibile in ogni singolo accordo, assai vario nella sua inflessibile tenacia stilistica. La cronometrica sezione ritmica, poi, spinge con decisione inflessibile la macchina-Nerve calibrandosi principalmente su mid e up-tempo, per finire pertanto di rado nei territori dei blast-beats. A questo punto, tirando le somme e mettendo assieme tutti gli elementi, ci si trova innanzi a un sound immutabile nella propria fisionomia, invariabile da “Antichrist” a “The Reign Of Thousand Years” e quindi identificativo di uno stile pressoché unico, timbrato a fuoco dal moniker ‘Nerve’. Un risultato eccellente, questo, giacché la galoppante inflazione di gruppi metal tende a uniformare e ad appiattire i tratti somatici del metal medesimo.
E, di seguito, si giunge a un ulteriore valore aggiunto posseduto dai Nerve: il songwriting. L’alta densità del suono che contraddistingue “Fracture” obiettivamente può non essere di aiuto, pertanto durante i primi passaggi è facile che non si riesca a entrare in sintonia con le tracce. A poco a poco, però, emerge dalla nebbia dei watt una musicalità quasi sorprendente, tale da soffiare di vita ogni singola canzone; ciascuna sempre più distinguibile dalle altre a mano a mano che si susseguono i passaggi. Ottimi esempi di questo sono la terremotante opener “Antichrist”, la dissonante title-track “Fracture”, la trascinante e melodica “Lenny Nero” e l’etera strumentale “The Reign Of Thousand Years”.
Paradossalmente non sembrava un’impresa facile pensare a un miglioramento di “Hate Parade”, all’epoca della sua uscita. Quando un lavoro non presenta punti deboli significativi, è ipotizzabile che il top sia lì vicino o quasi. Eppure, i Nerve ci sono riusciti con linearità, naturalezza e semplicità, senza stravolgere nulla del loro modo di essere.
Daniele “dani66” D’Adamo
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