Recensione: Freedom
Ben undici anni sono passati da “Eclipse”, ultimo album in studio dei Journey, la formidabile e seminale band AOR statunitense, una di quelle che hanno dettato i canoni del genere e raggiunto il traguardo di ben decine e decine di milioni di dischi venduti.
Molte cose sono cambiate in questi anni per i Journey, a cominciare dalla line up. A seguito di spiacevoli vicende legali, ecco che si è fatta largo tra le file della band una prestigiosa accoppiata del ritmo costituita da Randy Jackson al basso (già con la band qualche decennio fa) e Narada Michael Walden alla batteria (di recente a sua volta già sostituito dal rientrante Deen Castronovo). Sempre al proprio posto, invece, restano il band leader e chitarrista Neal Schon, Jonathan Cain alle tastiere e quell’Arnel Pineda che, dopo l’abbandono di Steve Perry e dopo qualche altro cantante avvicendatosi negli anni, ha assunto permanentemente il ruolo di vocalist del gruppo.
Durante i giorni più duri della pandemia i nostri, impossibilitati ad inanellare concerti su concerti come al solito, hanno trovato spazio e ispirazione per comporre e registrare a distanza tante canzoni, che oggi vedono la luce nel nuovissimo full-length “Freedom”.
Il nuovo album è stato preceduto da diversi singoli, che non avevano convinto del tutto il vostro umile recensore.
The Way We Used To Be, ad esempio, è un’ottima composizione midtempo con un chorus coinvolgente, ma possiede qualcosa di ruvido nell’arrangiamento che la frena e non le consente di prendere il volo come potrebbe. Lo stesso discorso vale per You Got The Best Of Me, altro rock veloce di stampo AOR e dal ritornello potenzialmente contagioso ma con un che d’impastato e di trattenuto nei suoni che non lo fa svettare come ci si aspetterebbe. Lo stesso Schon ha, in effetti, parlato di un suo desiderio di creare una versione “punky” di Any Way You Want It, il che spiega certamente l’inconsueto risultato stilistico, indubbiamente originale ma che potrebbe suscitare qualche perplessità in chi dai Journey si aspetta sempre suoni cristallini al servizio di purissime melodie.
Ci siamo accinti, dunque, con qualche timore ad ascoltare l’album nella sua interezza. Ma appena ascoltate le prime note della opener molte perplessità hanno iniziato a diradarsi.
Together We Run, infatti, ci accoglie con quel tocco di pianoforte di Cain che rappresenta un marchio inconfondibile per la band. La canzone ha una partenza slow che poi accelera in un tracciato melodico carico di romanticismo e di energia positiva, marchiato dagli assoli pieni e melodici di Schon. Anche Beautiful As You Are, dall’inizio lento e dall’evoluzione trionfale, e l’AOR catchy e carico di vitalità Don’t Go, ci portano nei fasti del più classico suono Journey.
I Journey sono celebri, com’è noto, anche per le proprie ballate, ed finanche “Freedom” non lesina certamente di offrire brani che in un tempo antico sarebbero stati definiti “da ballo della mattonella” . Still Believe In Love, ad esempio, è un lento soft rock da manuale con un Arnel impeccabile nel suo canto disteso sul tappeto delicato di suoni disegnato da tutti gli strumenti. Sulla stessa strada Live To Love Again (condotta dal pianoforte e valorizzata dal grandioso chorus “cuore in mano”) e After Glow (con Deen Castronovo alla voce).
Nel midtempo evocativo Don’t Give Up On Us i tocchi raffinati del synth rimandano ancora al suono più classico della band, ingioiellato da assoli chitarristici quasi fusion.
Gli archetipi del perfetto album dei Journey (e dell’AOR in generale) prevede la convivenza di zuccherosi brani slow con qualche nervosa (sebbene sempre patinata quel tanto che basta) sferzata hard rock.
Ed infatti, ecco che il nuovo lavoro della band statunitense ci snocciola pure tracce come Come Away With Me, un class rock dalle chitarre ruggenti sulla scia di alcune cose più dure di “Frontiers”, il teso e cadenzato Let It Rain, il tripudio hard di chitarre, basso e batteria di Holdin On.
All Day and All Night ha, invece, un andamento sinuoso irrobustito da chitarre hard e da un basso pulsante.
“Freedom”, in definitiva, offre brani di squisita fattura sebbene, invero, mai definibili come superlativi. In tutti i brani, la chitarra è sempre in gran spolvero, le tastiere di Cain sono particolarmente fedeli a se stesse ed al tipico loro suono al quale siamo piacevolmente abituati. Le ritmiche sono altresì parecchio policrome e, quasi naturalmente, rappresentano una delle principali differenze nel sound complessivo della band rispetto al passato, così come quelle però poco consone screziature “punky” di cui si parlava all’inizio. Arnel Pineda, poi, nei brani più duri riesce persino a staccarsi in minima parte dal modello Steve Perry, cui resta fedelissimo, peraltro, delle ballate.
L’ultimo lavoro dei Journey non fa, a conti fatti, gridare al capolavoro ma rappresenta un ottimo soddisfacente ritorno, nell’insieme di grande piacevolezza e talvolta in grado di far volare l’ascoltatore indietro fino all’epoca in cui l’AOR godeva di straordinario favore, sebbene talora lievemente compromesso da scelte sonore che lo rendono appena un poco opaco.
Francesco Maraglino