Recensione: Freedom To The Slave Makers

Di Daniele D'Adamo - 18 Febbraio 2011 - 0:00
Freedom To The Slave Makers
Band: Betzefer
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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73

Ennesima prova che il metal, nel 2011, non conosce frontiere. Da Tel-Aviv, infatti, piombano sul mercato internazionale i Betzefer (slang ebraico di «scuola») con il loro “Freedom To The Slave Makers”, secondo full-length di una carriera che, ormai, ha quasi tre lustri. Dopo la classica trafila degli EP autoprodotti (“Pitz Aachbar”, 2000; “Some Tits, But No Bush”, 2001 e “New Hate”, 2003), nel 2005 la Roadrunner Records mette gli occhi su di loro e, prima dell’approdo all’AFM Records, vengono dati alle stampe – sempre nel 2005 – un singolo apri-pista (“Fuckin’ Rock’n’Roll”) e il tanto sospirato disco di debutto: “Down Low”. Se a questo consolidato interesse da parte delle major si aggiunge che a missare “Freedom To The Slave Makers” ci pensa un personaggio del calibro di Warren Riker (Down, Lauren Hill, Santana), appare chiaro se non lampante che sull’ensemble israeliano, sicuramente dotato una professionalità allineata al music business d’alto livello, sono state puntate parecchie risorse sia umane, sia economiche.

Lo stile di “Freedom To The Slave Makers” è quello «solito», cioè un composto di vari ingredienti: thrash e post-thrash, modern metal, post-grunge, hardcore e, più genericamente, *-core. Insomma, un guazzabuglio di definizioni per mettere l’etichetta di «groove metal» (Soulfly, Ektomorf, ecc…) al compact disc. Questi, per essere apprezzato sino in fondo, esige volumi d’ascolto elevati. La potenza in gioco, difatti, non è per nulla trascurabile: Roey Berman pesta come un dannato le sue pelli per dar forma alla classica ritmica avvolgente e vagamente ipnotica del groove metal, appunto. Al drumming si aggiungono le spesse linee disegnate dal basso di Rotem Inbar, che contribuisce con il suo rombante strumento ad alimentare qual senso di «trappola» che una ritmica groove ben eseguita riesce a materializzare.

Un po’ di confusione, ma solo per tornare al tentativo del più giusto inquadramento stilistico, la fa Avital Tamir. Stupendo il suo tono roco da consumata rock star, aggiunge alle sue partiture screaming e growling che, a parere di chi vi scrive, aiutano sì a movimentare il tutto, creando tuttavia nello stesso tempo un certo disorientamento nel tenere la strada Maestra senza sbandamenti. Eccellente, e qui si è davvero ai massimi livelli del genere, il ricchissimo lavoro di Matan Cohen, che raggiunge tutti gli anfratti metal/rock raggiungibili: accordi a «plettro libero» con accordature «abbassate», riff in palm-muting compressi come si deve, tappeto ritmico pieno zeppo di armonizzazioni abbraccianti tutti i generi anzidetti (hardcore, thrash, groove, ecc…). Un sound che, ascolto dopo ascolto, tende ad allontanarsi da quello proposto dagli act più celebri, per assumere una connotazione del tutto personale. Ma, attenzione, occorreranno molta pazienza e parecchi ascolti. Se si molla subito la presa, si perderà il piacere di gustare un platter moderno, potente, vario e – spesso – davvero piacevole per passare quaranta minuti liberi dallo stress della vita moderna. Sempre che la melodia non sia un parametro di riferimento considerato importante, poiché in “Freedom To The Slave Makers” ce n’è davvero poca; sostituita da una grande aggressività e un da tono arcigno che, in ogni caso, non riesce mai a essere fastidioso.

Già l’opener, “Bestseller”, che si arrotola su se stessa grazie al suo ritmo «circolare», mostra i caratteri decisi del cd; soprattutto quell’indocilità che ne forma lo scheletro portante. Alla discreta originalità del metal-blues di “Backstage Blues” segue il buon tiro di “Feels So Right”. La riottosa “Diamond Director” e l’accattivante “Nothing But Opinions” preparano il terreno a “Empty Magazine” che alza un po’ il ritmo senza, ovviamente, oltrepassare la barriera del suono. Una “Doomsday” ricca di cori riottosi precede l’episodio migliore del platter, cioè “Perfect Lie”. Lenta e sinuosa, la canzone avvolge l’ascoltatore come le spire di un pitone, soffocandolo con il suo ritmo claustrofobico. “Song For The Alcoholic”, lacerata da un ottimo solo di Cohen, e “Heaven Sent”, furiosa e involuta grazie al roco growling di Tamir, chiudono – in linea con le altre song – l’opera.      

Tipico lavoro il cui giudizio è fortemente condizionato dai gusti personali, “Freedom To The Slave Makers” si rivela comunque una discreta rivisitazione di un genere (groove metal) che, oggi, va per la maggiore in campo thrash o, meglio, post-thrash. Le canzoni non rivelano né picchi né abissi qualitativi, essendo uniformi nel loro stile compositivo. Il che è un bene ma anche un male, nuovamente a giudizio delle preferenze di chi ascolta.
In sintesi, un prodotto moderno, serio e professionale; senza che ci sia nulla che faccia gridare al miracolo. Come i Betzefer, del resto.

Daniele “dani66” D’Adamo

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Track-list:
1. Bestseller 2:59
2. Backstage Blues 5:09
3. Feels So Right 3:40
4. Diamond Director 3:57
5. Nothing But Opinions 4:22
6. Empty Magazine 3:51
7. Doomsday 4:13
8. Perfect Lie 5:11
9. Song For The Alcoholic 3:15
10. Heaven Sent 2:58    

All tracks 39 min. ca.

Line-up:
Avital Tamir – Vocals
Matan Cohen – Guitars
Rotem Inbar – Bass
Roey Berman – Drums
 

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