Recensione: From Ashes
Esordio discografico per gli olandesi Seven Steps of Denial, rilasciato la prima volta nel 2014 e ristampato all’inizio del 2016. L’intenzione dei nostri baldi giovani è quella di “suonare un metal melodico senza limitarsi ad un sottogenere particolare”, come si legge nella loro bio ufficiale, e va detto che da quanto emerge da questo “From Ashes” l’obiettivo è, almeno tecnicamente, raggiunto: la proposta del gruppo si può effettivamente descrivere come un heavy metal molto variegato che non disdegna attingere ad altri generi come il Thrash o certo Death melodico per, presumo, donare una maggiore rotondità e spessore al proprio suono. Che poi il tutto gli riesca bene o meno resta da vedere.
I Seven Steps of Denial sono formati da Marcel Paardekooper alla voce, Dennis Mes ed Edwin de Boer alle chitarre, Yick Jun Fung al basso e Laurens Justin Kreeft alla batteria e nelle quattrodici canzoni (per un’ora abbondante di musica) che compongono “From Ashes” le provano davvero tutte per restare impressi nell’orecchio dell’ascoltatore, ma per un motivo o per l’altro non riescono quasi mai a centrare il bersaglio. A dire il vero le canzoni non sono brutte, a livello di scrittura le qualità per un bell’album a mio avviso ci sarebbero anche, ma anche dopo una decina di ascolti non ce n’è una che mi sia davvero entrata in testa e questo per un album heavy metal con canzoni della durata media di 4-5 minuti è piuttosto preoccupante.
“Depleted Soul” si incarica di aprire le danze e già qui percepisco che qualcosa non va proprio benissimo: i suoni sono fin troppo asciutti, secchi, e sebbene a qualcuno questo tipo di produzione così scarna possa piacere, trovo che in questo caso tenda ad appiattire la resa finale, penalizzando soprattutto la sezione ritmica. A ciò va aggiunto che neanche la voce di Marcel mi ha entusiasmato, risultando a tratti abbastanza inespressiva quando non addirittura fastidiosa. Naturalmente questo è solo il mio punto di vista, ma personalmente trovo difficile appassionarmi a un album, per quanto ben suonato, quando la voce del cantante non mi trasmette nulla. Al di là di questi due aspetti, che mi rendo conto essere assolutamente soggettivi, va detto che la canzone scorre agevolmente e senza incidenti per i suoi sette minuti scarsi, irrobustendosi nella seconda metà con una sfuriata più vicina al thrash vecchia scuola.
“Contractor” è una tipica canzone da live, diretta e caratterizzata da continui stop and go, che sicuramente mieterà vittime nelle esibizioni dal vivo, mentre “Sub-Zero”, a un’interessante partenza carica di groove affianca uno svolgimento più classicamente heavy: non m’è spiaciuta l’incursione improvvisa delle chitarre gemelle, molto maideniane, prima del finale, anche se forse un po’ troppo slegata dal resto della canzone. “One Eyed Ruler” punta invece su un incedere più cadenzato e, complici anche il chorus facile e immediato e la bella accelerazione nel finale, è forse la prima canzone di cui resta qualche traccia nella memoria. “Die Before Darkness” è una semi-ballata in cui Marcel propone un approccio vocale più contenuto e malinconico, salvo poi tornare a incattivirsi durante le brusche impennate strumentali in corrispondenza del chorus e soprattutto nell’avvincente seconda parte della canzone.
“Last Days” e “The Pursuit” cercano entrambe di mantenere alto il tiro dopo le due prove niente male appena passate: la prima punta su velocità medio alte e una melodia nervosa, sorretta da improvvise sfuriate quasi black; la seconda invece strizza l’occhio a un certo death melodico di stampo nordeuropeo tornando, nella sua seconda metà, alle incursioni di chitarre gemelle sentite in precedenza. Purtroppo in entrambi i casi si tratta di canzoni senza infamia e senza lode, prive di quel guizzo che permetterebbe loro di spiccare il volo. Guizzo che, invece, è presente in “Origin”, con i nostri olandesi che finalmente si danno una regolata e tirano fuori un gran pezzo: concentrato, melodico e tirato, un brano che martella il giusto e dice tutto ciò che deve dire in meno di quattro minuti senza girarci tanto intorno. Ben fatto.
“What doesn’t Kill” torna a sconfinare, durante il suo svolgimento, nei territori del thrash, ma qui più che altrove si sente la mancanza di incisività di Marcel, che alla fine risulta l’anello debole di una canzone altrimenti nient’affatto male. Un discorso simile si può fare per la successiva “Destruction of Paradise”, che nonostante un inizio quasi da hit di Mtv e un incedere complessivo più lento e articolato, in fin dei conti è dotata di alcuni spunti interessanti ma deve pagare lo stesso scotto, penalizzata da un piglio vocale che secondo me si salva solo durante il chorus.
“Always There” torna all’alternanza tra approccio pulito e brusche impennate che già si era sentito in “Die Before Darkness”, consegnandoci una canzone gradevole su cui però incombe minaccioso lo spettro di “Projector” dei Dark Tranquillity (ascoltare per credere), mentre con “Gemini” si torna su lidi più classici per una canzone che punta sull’impatto e su una certa immediatezza, raggiunta anche grazie a un’ottima prova strumentale del combo olandese: semplice, funzionale e decisamente d’effetto. Questa immediatezza continua anche nella successiva “Call to Arms”, in cui i Nostri aggiungono alla loro ricetta quel pizzico di tracotanza che non guasta mai, per poi finire in “Broken Promise”, che conclude l’album alternando rapide sfuriate chitarristiche dal profumo di Iced Earth a momenti più rilassati.
Che dire dunque di questo “From Ashes”? Che a mio avviso è un esordio un po’ zoppicante, carino ma non proprio memorabile, in cui le buone idee ci sono ma sono sommerse dal desiderio di strafare e di mettere un sacco di ingredienti a cuocere sul fuoco, finendo inevitabilmente per dare al piatto un sapore un po’ troppo confuso. Vedremo se in futuro riusciranno a correggere il tiro, le capacità per farlo le hanno.