Recensione: From Beyond
Non è facile essere completamente derivativi e, al contempo, risultare credibili. Gli Enforcer ci riescono benissimo, così come un manipolo di altre band che nel corso dell’ultimo decennio hanno trovato la propria ragion d’essere nella ripetizione filologica del verbo del metal anni ottanta. Si pensi agli Steelwing, ai Cauldron, o agli Striker.
Nello specifico degli Enforcer siamo dalle parti delle periferie inglesi dei primissimi anni ottanta, socialmente rabbiose e musicalmente freschissime. I giovani svedesi hanno imparato alla perfezione i canoni della NWOBHM, che ripropongono in tutto: arrangiamenti, melodie, assolo e, va detto, attitudine. Il precipitato che lascia From Beyond è innanzitutto la sensazione di essere dinnanzi a una completa dedizione al canone di quei tempi lontani, una dedizione che si traduce in un credo sincero e mai posticcio. Ne vien fuori un album fresco, dinamico, ispirato, che è un piacere ascoltare dall’inizio alla fine.
Non che la cosa sia inattesa. From Beyond è il quarto disco degli Enforcer, che certo non hanno sbagliato un colpo, ma con il precedente Death by Fire avevano forse toccato il proprio apice compositivo. Il nuovo prodotto non stupisce più, quindi: in ciò può essere il suo unico limite. Tuttavia, se è vero che la proposta non cambia di una virgola, va anche detto che la qualità non scade ma sa mantenersi su livelli irraggiungibili dalla maggior parte delle band attuali.
Destroyer apre il disco ed è subito tempo di una mazzata speed di livello: headbanging assicurato per un pezzo che non dirà niente di nuovo, ma lo dice bene.
Undying Evil fa il verso ai primi Praying Mantis. E che verso: la canzone ha un piglio eccezionale, che fa passare in secondo piano un ritornello non eccelso.
From Beyond inizia come un outtake (bello) di Killers e si rivela una cavalcatona metal forse un po’ pedissequa nel tornare su se stessa, ma in sostanza credibile.
One With Fire non raggiunge i tre minuti e fa il proprio dovere. Tempo in due quarti, doppia cassa, grande chorus che non mancherà di mietere vittime nei live della band. Con un arrangiamento del genere, sono bravi gli svedesi a evitare di scadere nei cliché del power metal, rimanendo saldi alle proprie influenze protometal.
L’arpeggio che apre Below The Slumber sembra uscito da una cantina fumosa di Sheffield, tanto è perfettamente retro. La canzone, poi, si trasforma in un mostro a due teste, ora aggressivo, ora subdolamente mellifluo. Grande pezzo, impreziosito da una notevole proverà vocale di Olof Wikstrand e da un bell’assolo melodico che richiama le armonizzazioni maideniane . Il punto più alto del disco.
La successiva Hungry They Will Come è l’immancabile pezzo strumentale (c’era sempre!). Pur richiamando quanto già proposto nelle precedenti uscite, gli Enforcer riescono ancora a stupire per la capacità di comporre minuti strumentali di straordinaria freschezza. Il modello è evidentemente la band di Steve Harris e le sue varie Transylvania e The Ides Of March: i livelli, come i tempi, sono imparagonabili, ma è innegabile che gli Enforcer riescano a non sfigurare.
Con The Banshee si torna a correre, sull’onda lunga dei primi Def Leppard, rivisti con un metronomo accelerato. L’assolo è da accademia del metal: tra tanti mestieranti abili a infilare serie velocissime di note insensate, ecco che gli Enforcer sanno scrivere assolo aggressivi ma melodici, metallici ma sensati.
Ancora un arpeggio apre Farewell, che poi si scatena soprattutto in virtù di un riff che ci ricorda quanto i primi Metallica dipendessero dalla NWOBHM. Il pezzo è valido più grazie all’attitudine della band, davvero credibile, che non alla sua oggettiva qualità. Ma che piacere rovinarsi definitivamente la spina dorsale.
Hell Will Follow scade quasi nel primo thrash: di nuovo, i vagiti di Kill’em All risuonano in lontananza.
Infine, Mask Of Red Death è un pezzo articolato, capace di alternare sapientemente parti aggressive e più meditate, queste ultime debitrici nei confronti dei primi Saxon. Il raccordo tra le anime della canzone è gestito benissimo e il disco si chiude senza nessuna forzatura.
Insomma, non è facile essere gli Enforcer. Si rischia sempre che qualcuno ti prenda poco sul serio, che l’avventuroso recensore ti derubrichi a ennesima cover band mascherata. Credetemi: non è così. Il metal vive anche di Enforcer, di certezze che gli anni hanno cristallizzato, di giovani che ammirano e onorano le origini di ciò che oggi è. È un fatto: nel 2015 molto metal è sterile ripetizione di se stesso; e proprio per questo va apprezzata una band capace di riproporre senza cantilenare.
Un altro bel disco degli Enforcer.