Recensione: From Hell to Texas
Schiocco di frusta e cavalli al galoppo: si parte con il nuovo Nashville Pussy, disco che riserverà alcune interessanti sorprese. ‘From Hell to Texas’ – che è anche il titolo di un western del 1958 – esce a quattro anni di distanza da ‘Get Some’, un’eternità se si considera i tempi molto più ristretti a cui si erano susseguiti uno dopo l’altro i dischi precedenti. Un lasso di tempo più ampio che ha sicuramente cambiato alcune delle cose più di quanto qualcuno potesse aspettarsi. Niente di eclatante ovviamente, ma per una band come quella dei coniugi Cartwright e compagnia – da cui certo non ci si aspettano rivoluzioni sonore – anche questi lievi cambi di rotta sono in realtà passi da gigante.
Si resta sempre su velocità elevate e minutaggi limitati, ma le melodie e i riff si spostano decisamente su scale più blues. La componente southern prende il sopravvento e la produzione si fa ancora meno pulita dl solito. Brani come l’opener Speed Machine si alternano ad altri come l’ottima Lazy Jesus, dove armonica a bocca e pennata a salire ne fanno un tipico esempio di questa piccola novità.
I punti in comune tra queste nuove virate meno frenetiche, come Stone Cold Down, restano eccome: volenti o nolenti con i Nashville Pussy ci si trova immersi in un turbine di rock n’roll vecchio stampo, nudo e crudo, lineare e scarno, privo di tutto ciò che non rientra nel mero indispensabile. Vedi Pray for the Devil per una sintesi scolastica di quanto detto fino a ora.
Rimangono anche le pesanti reminiscenze punk rock, con brani come Late Great Usa (con tanto di coretto “Ehi! Ehi! Ehi!”) o la scanzonata Why Why Why, dove i Nashville Pussy giocano con un ritornello tra Twisted Sister e Quiet Riot. In Dead Men Can’t Get Drunk il focus si alterna tra il punk rock d’annata unito alle influenze Motorhead di stampo britannico e un assolo più rock, sulla scia di Lynard Skynard e band US. D’altronde è ben noto quanto Blaine Cartwright sia un fan di Ramones e della scena punk anni ’70, e questa passione aveva già pesato, anche se mai in maniera così profonda, sui primi dischi della band. Tornano i cavalli in Drunk Driving Man (della serie ‘non provateci a casa’) il brano con il riff più heavy e ottantiano del lotto, che abbandona le piste di Sex Pistols e soci per avvicinarsi (come non mai in questo disco) allo Street e al Glam stile Hanoi Rocks.
Dalla analisi dei 38 minuti di ‘From Hell to Texas’ non può che uscire un pollice alto per quanto riguarda la chitarra solista, sempre in primo piano e pronta a guadagnare groove e carisma rispetto a quanto sentito in passato, gettandosi in una dimensione decisamente più ’50, primi ’60 e rockabilly.
Sono convinto ‘From Hell to Texas’ sia stata una gradita sorpresa, non un disco che sopravviverà agli anni e alle mode ma sicuramente una band musicalmente (e solo musicalmente) più matura e forse ancora più di prima ancorata al retaggio melodico dei primi anni del rock n’roll fino al punk e al southern settantiano. Anacronistici nelle influenze, decisi nelle intenzioni e capaci di non limitarsi a ricopiare spudoratamente: non c’è di sicuro genio e scintilla fatale per l’invenzione in questo quartetto americano, ma per quanto mi riguarda questa unione e rilettura di già sentito risulta comunque più piacevole e divertente di tante, tante, tante pretenziose uscite sotto le più svariate etichette e definizioni.
Spariscono i cloni a stelle e strisce dei Motorhead e lo sleaze scandinavo svanisce sotto i colpi ben assestati delle influenze più datate: i Nashville Pussy ne hanno fatta un’altra delle loro e per chi scrive si sono salvati dal rischio dell’eterna autocitazione più che dignitosamente. Hell yeah!
Alessandro ‘Zac’ Zaccarini
Tracklist:
01. Speed Machine
02. From Hell To Texas
03. Drunk Driving Man
04. Lazy Jesus
05. I’m So High
06. Ain’t Your Business
07. Dead Men Can’t Get Drunk
08. Late Great USA
09. Pray for The Devil
10. Why Why Why
11. Stone Cold Down
12. Give Me A Hit Before I Go
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