Recensione: From Sacrifice ‘Till Motörizer [BMG Reissue]

Di Stefano Ricetti - 4 Giugno 2019 - 0:02
From Sacrifice ‘Till Motörizer [BMG Reissue]
Band: Motörhead
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2019
Nazione:
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74

No Sleep from SACRIFICE ‘till MOTORIZER

Motörhead 1995 – 2008

[BMG Reissue]

 

I Motörhead nel 1984 erano una band in caduta. I fasti degli anni precedenti, segnati da disconi quali Overkill e Ace Of Spades facevano già parte del passato. La concorrenza là fuori era agguerritissima e il mondo dell’hard e dell’heavy metal sarebbe  sopravvissuto e avrebbe prosperato lo stesso anche in mancanza della pole position del combo capitanato da Sua maestà Ian Fraser Kilmister.

L’immagine dell’icona immortale e del rocker consumato senza macchia e senza paura che si è usi associare a Lemmy, a quel tempo, era solamente in nuce. Mr. Motörhead era un bel personaggione, senza dubbio, ma ancora lontano dalla living legend trasversale che sarebbe divenuta anni dopo, capace di piacere tanto alle modelle da prima pagina Usa quanto ai biker’n’rocker avvinazzati frequentatori della più recondita osteria della Valsailcavolo. A metà anni Ottanta, come mi raccontò personalmente Pete Gill, la Testa di Motore più famosa dell’empireo metallaro non aveva chissà quale appeal, tanto che l’ex bombardiere dei Saxon ci pensò su un bel momento prima di accettare di entrare a far parte della band. Altre allettanti richieste giacevano sui suoi tom e alla fine quello che fece la differenza fu la conoscenza diretta e la frequentazione abituale con Phil Campbell, chitarrista che insieme con Wurzel diede nuova linfa ai Lemmy Kilmister’s Motörhead.

La rinascita della band avvenne con quella mazzata di Acciaio fatto musica che è Orgasmatron, del 1986. Da lì al 1995 una manciata di album con chiari e scuri: ottime canzoni killer frammiste a filleroni da paura. Anni segnati dall’uscita burrascosa dello stesso Pete Gill, dal rientro dello storico Philty Animal Taylor dietro le pelli a sua volta destituito a favore di Mikkey Dee, mentre il resto della formazione permaneva incredibilmente immutato: Lem, Wurz e Campbell

 

Lemmy Kilmister Samantha Fox 1

Lemmy e Samantha Fox, quando Kilmister ancora risiedeva in Inghilterra

 

Il perché di tutto ‘sto pistolotto è presto spiegato: la BMG, così come fatto recentemente per i Saxon in tre tranche (qui il resoconto esaustivo del riuscitissimo tris inanellato dalla stessa etichetta nel 2018: Wheels & Co. , Denim & Co. , Innocence & Co. ) s’è presa la briga di ristampare tutto il catalogo dei motorizzati, a partire da Sacrifice del 1995 per arrivare sino a Motörizer del 2008, live album inclusi. Nessun cofanetto di sorta, ma una serie di uscite singole una dopo l’altra, in grado di vivere ognuna di vita propria, senza bonus track né diavolerie varie aggiuntive. Apparentemente una scelta bizzarra, ma è anche vero che i primi album del gruppo in questi ultimi decenni sono usciti un po’ in tutte le salse e c’era obiettivamente poco da inventarsi, di nuovo, ancora, a livello Cd…                 

Quattordici anni di Motörhead – il 1995 è compreso! – non sono noccioline, si passano al setaccio quasi tre lustri di potenza applicata alla musica. Per parecchi il periodo più scintillante del combo inglese rimane relegato agli anni Ottanta e non v’è dubbio che molto probabilmente sia così. E’ altrettanto vero, però, che da quando Lemmy si trasferì a Los Angeles, nel 1990, si tolse definitivamente da quell’alveo di decadenza che lo vedeva avvolto sino alle prime luci del mattino nei locali di Soho, circondato da outsider di ogni ordine e grado. In California la sua residenza de facto divenne il variopinto Rainbow Bar & Grill sul Sunset Boulevard. Il suo colorito grigioverde da tipico topo di città britannica venne rimpiazzato da quel bel bruno ambrato che lo splendente sole della Città degli Angeli sa regalare. Il cambio di dentizione poi – Lemmy non poteva certo sfoderare il tipico sorriso Durbans, ai tempi di Iron Fist… – lo fece assurgere addirittura a sex symbol. Non che a London se ne stesse con i pantaloni sempre ben allacciati, sia chiaro, ma la qualità media della fauna femminile della west coast che frequentò contribuì ad accrescere la sua autostima, dalla cintola in giù… Lemmy a L.A. divenne con gli anni molto attento anche al proprio look. Via le camicie color nero smunto della Swingin’ London (si fa per dire…) figlie di lavaggi (radi) ma rintracciabili, banditi gli stivaletti bianchi con la cerniera tipici degli anni Settanta sino a dar via libera a un vestiario sempre da fottuto rocker ma stiloso, personalizzato e di tendenza.  

 

LEM LA

Lem nei primi anni a Los Angeles, prima del graduale cambio di look 

 

Di icone, anche dal punto di vista fisico e della presenza, l’heavy metal ne ha e ne aveva anche anni fa. Lemmy era senza dubbio una di queste, e fra le più gettonate, ma anche David Coverdale, Ozzy Osbourne, Steven Tyler, Rhett Forrester, Joe Elliot, Alice Cooper, Ted Nugent, John Sykes e lo stesso Biff Byford dei Saxon, un monolite fatto uomo, non scherzavano… personaggi tutti d’un pezzo ai quali la vecchiaia pareva scivolare addosso, quasi per volere divino. E per Lemmy è stato così per moltissimi anni, prima che la malattia che lo afflisse lo minasse anche all’esterno di quella corazza che pareva impenetrabile.

Idealmente le ristampe BMG – con qualche omissis afferente i primi anni Novanta – ripercorrono il periodo del Lemmy invincibile post ottantiano, quello che non pensava più di tanto al futuro perché con il fisico d’acciaio che madre natura gli aveva dato in dote assumeva che il domani fosse così in là del tempo che non valeva arrovellarcisi sopra troppo. Fra Sacrifice e Motörizer si sono scritti capitoli fondamentali della storia dei Motörhead che fanno il paio con la storia del Rock. Perché là fuori, cioè andando oltre alle orde barbariche dedicate anima a corpo all’heavy metal e all’hard rock che ci ricomprendono appieno, per una moltitudine di persone Lemmy è il Rock e il Rock è Lemmy. Non perché Lem ci abbia lasciato nel 2015 che il Rock sia morto ma qualcosa indissolubilmente con lui se n’è andato per sempre…

 

 

SACRIFICE

OVERNIGHT SENSATION

SNAKE BITE LOVE

EVERYTHING LOUDER THAN EVERYTHING ELSE

WE ARE MOTORHEAD

LIVE AT BRIXTON ACADEMY

25 AND ALIVE & BONASHAKER

HAMMERED

INFERNO

KISS OF DEATH

BETTER MOTORHEAD THAN DEAD

MOTORIZER

(BMG)

 

Tornando ai Cd, le perle abbondano, così come i riempitivi, ad essere onesti. Ma che “fanno sangue” sono di certo le prime: “Sacrifice” e “We Are Motörhead” dagli album omonimi, con la seconda a livello dei classici immortali della band.

Non mancano i pezzi anomali, o quantomeno quelli che mi piace ritenere tali, che assumono le sembianze di brani accattivanti: “Dog-Face Boy” da Sacrifice, un mid tempo semplice ed essenziale ma fottutamente penetrante, “Night Side” da Snake Bite Love, un fulmine dark all’interno della discografia dei M’head,     

Impossibile non menzionare le intimiste e ottimamente riuscite “Whorehouse Blues” da Inferno, “Listen To Your Heart” da Overnight Sensation, “One More Fucking Time” da We Are Motörhead

Assoluto godimento lungo le note iperamplificate di “God Was Never on Your Side” e “Sucker”, da Kiss Of Death. Rispetto al resto con le ossa rotte se ne escono Hammered e Motörizer, gli album più deboli del lotto griffato BMG, sebbene quest’ultimo contenga “Heroes” – non Bowie cover! – un malinconico affresco che val la pena rispolverare.      

Mazzate alive? Basta scegliere quanto più aggrada in base ai gusti di ognuno: “Iron Fist”, “Capricorn” e “Orgasmatron” da Everything Louder Than Everyone Else spettinano, come ama asserire un Signore del Rumore come AC Wild dei Bulldozer, per significare quando dei pezzi spaccano di brutto! Non da meno il quartetto magico “Killed by Death”, “Bomber”, “Ace of Spades”, “Overkill” posto a chiusura di Live at Brixton Academy, un’inanellata classica presente peraltro anche su Everything…

Better Motörhead than Dead: Live at Hammersmith schiera, fra tutto l’eccellente resto, una “Whorehouse Blues” da brividi, così come “Dancing On Your Grave” è sempre un bel sentire.      

Capitolo cover: “God Save The Queen” dei Sex Pistols da We Are Motörhead, sebbene l’originale possegga qualche marcia in più della Mhead-versione, poi dal vivo R.A.M.O.N.E.S. tratta da Better Motörhead than Dead: Live at Hammersmith, non una vera e propria cover ma un tributo agli amici punk rocker di NY.

Ma, indipendentemente da tutto, i Motörhead sono un gruppo che va oltre il concetto di canzone, la band dello Snaggletooth incarna una sorta di culto ed è sempre difficile discernere con estrema chiarezza i pezzi buoni da quelli grami, nel momento in cui la fede trascende qualsiasi tipologia di classificazione…

I Motörhead, così come poche altre band, vanno presi in blocco. Esattamente come il loro capo, Lem: sebbene fra qualche chiaroscuro un UOMO, non di certo un mezz’uomo, un ominicchio, un pigliainculo e men che meno un quaquaraqà…  

Reissue BMG 2019: una (ri) scoperta tonificante…  

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

 

 

     

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