Recensione: From The Mortuary [EP]
3 ottobre 1992, domani sarà il grande giorno, cosa penseranno i fan? Quale sarà la reazione dei Media? Come si parlerà del nuovo album nel mondo? Certo, sarà una scossa, un cazzotto nello stomaco per tutti, difficile che qualcuno abbia potuto prevedere come suonerà “Wolverine Blues”. Eppure non tutti sono pienamente convinti del lavoro svolto; tra Nicke, Uffe, Alex, e i due Lars c’è una nota stonata, forse un ripensamento inizia a farsi strada, a serpeggiare subdolo e martellante. Ecco, what if…. Cosa sarebbe accaduto se alla vigilia della pubblicazione del terzo “sconvolgente” capitolo della saga Entombed le cose fossero andate diversamente, se in una dimensione parallela del multi verso le sliding doors del Destino avessero decretato una serie di accadimenti differenti rispetto a quelli che ci ha consegnato la storiografia istituzionale? Forse i deathster svedesi più famosi e importanti del globo avrebbero fatto un passo indietro, ripensando a quanto prodotto con “Left Hand Path” e “Clandestine”.
Quel passo indietro si sarebbe tranquillamente potuto chiamare Feral, congrega di connazionali degli Entombed, indiscutibilmente compromessi con quel sound, quell’attitudine, quelle atmosfere. Pur fermandosi in tempo però, e quindi senza pubblicarlo, gli autori di “Wolverine Blues” avrebbero comunque introiettato quelle sonorità, le quali, subliminalmente avrebbero ugualmente finito con l’affiorare in un modo o nell’altro. Ed infatti, se ascoltiamo “From The Mortuary” quello accade, una sorta di sintesi più o meno consapevole del prima e del dopo, con l’annus horribilis del 1992 a fare da spartiacque. Fuori da elucubrazioni pseudo storiche, i Feral con questo EP approdano alla terza pubblicazione dopo due full-length pregevolissimi. Ho adocchiato la band sin dall’esordio; si può puntare il dito accusandola di scarsa originalità, affiliazione, copia/incolla e derivazione quanto si vuole, eppure – per paradosso – la personalità ed il carisma dei nostri non verrebbero meno neppure per un grammo. La forza dei Feral risiede proprio in questa apparente contraddizione in termini; senza gli Entombed (Grave, Dismember e Unleashed) non sarebbero magari neppure mai esistiti, ma la potenza e la qualità che affiora da ogni loro composizione, da cinque anni a questa parte, è fuori discussione e sovrasta ogni altra considerazione.
La cura, lo spessore, la grandezza del songwriting sono sopraffini, prelibatezza che non lasciano con l’appetito insoddisfatto una volta che ci si è alzati da tavola. Il lotto di pezzi proposto include una rivisitazione di “Necrofilthiac” (già pubblicata nel 2011) e la cover dei Pentagram “Relentless”. Satura e grassissima come da manuale la chitarra di Lindahl, con plettrate sulle corde che lasciando grondare elettroni e protoni in grado di illuminare a giorno la Scandinavia; ricco e grumoso anche il drumming di Markström, mentre le linee di basso di Klingstedt ce le immaginiamo volentieri, ma diciamo che non sono esattamente in primo piano in questo assalto all’arma bianca. A far da collante del tutto il growling di Nilsson, sufficientemente intellegibile per quanto massiccio e inca**ato. Cinque pezzi semplicemente ferali, ai quali si aggiunge la gustosa cover dei Pentagram, inacidita e squartata a dovere. Rispetto agli album precedenti si nota un lieve afflato più rock n roll, proprio secondo la direzione prefigurata dai summenzionati padrini all’alba del blues del lupo artigliato. Chissà cosa accadrà dunque con la prossima produzione dei Feral, avremo l’ennesima deflagrante bordata swedish death metal o dovremo aspettarci un destabilizzante cambio di pelle, croce e delizia di ogni fan da che metal è metal? Ai posteri l’ardua sentenza.
Marco Tripodi