Recensione: From Zero
From Zero– un titolo che da solo, come spiegato da Mike Shinoda, riassume concettualmente quella che è la visione del progetto Linkin Park targato 2024. Una sorta di rinascita che gioca con la parola “Xero” (originariamente il primo nome della band), per riportarci ad una dimensione diversa in cui il gruppo, orfano del compianto Chester Bennington, torna con una nuova line-up che vede la tanto discussa vocalist Emily Armstrong e il batterista Colin Brittain a completare il sestetto. Non staremo in questa recensione a parlare di tutte le controversie attorno al nome di Emily Armstrong, la questione Scientology e molto altro, ma piuttosto cercheremo di dare una lucida disamina di quanto offerto da questo nuovo, breve, ma intenso album targato Linkin Park.
Innanzitutto è bene notare come quattro sesti della band sia rimasta intatta, cosa più importante, il nucleo compositivo è rimasto quello dei vecchi tempi , lo stesso che ha partorito album iconici come Hybrid Theory o Meteora. Il trio Shinoda/Brad Delson/ Joe Hahn rimane infatti il nucleo portante di questa band a livello di songwriting, band che dopo sette anni e mezzo dal loro ultimo platter, il controverso One More Light, torna senza stravolgere troppo l’idea sonora che il fan o il conoscitore “medio” dei Linkin Park ha sul six-piece Statunitense ; ed è così che abbiamo un disco che è una mescolanza di quanto fatto in Hybrid Theory e Meteora, con una forte influenza da un altro disco iconico come Minutes To Midnight, pescando anche qualcosina da quello che è veduto dopo, ma a piccole dosi. Niente grandi stravolgimenti, niente brani particolarmente elaborati, complessi e coraggiosi come quelli di A Thousand Suns, e nemmeno troppe incursioni verso i lidi pop del già citato One More Light. Anche le parti di scratch, sampling ed elettronica, rispetto ad altri dischi della band come Living Things per esempio, sono tenuti un pochino nelle retrovie, per un Joe Hahn forse un pelo sacrificato, ma che sa mettere sempre lo zampino vincente quando serve.
Niente grandi sorprese quindi, per una band che ci ha abituato a scelte stilistiche coraggiose album dopo album ormai dal dopo Meteora, tanto che questo fattore sembrava quasi essere diventato una costante nell’universo di questa iconica band. Ma d’altronde la scelta di giocare più sul sicuro è pienamente comprensibile dopo il grande stravolgimento di formazione che lasciato la fanbase spaccata a metà.
L’intro From Zero da appena ventidue secondi rispecchia il concetto di questa nuova era in maniera esemplare con Mike Shinoda che si interroga con quello che sembrerebbe suo figlio (difficile però esserne certi), sul significato del titolo. Questa questione generazionale riportata perfettamente nell’intro, è un qualcosa di centrale nel ruolo dei nuovi Linkin Park, anche a detta dello stesso Shinoda che ha sempre pensato ai tanti ragazzini molto giovani che per questione di età non hanno mai potuto vedere live la line-up classica della band.
Entrando nel vivo del disco, The Emptiness Machine la conosciamo tutti ormai, è un singolo catchy e che ti si stampa in testa al primo ascolto, nulla di nuovo nulla di trascendentale ma un pezzo molto ben scritto e d’impatto che mostra il lato più commerciale dei Linkin Park.
Ma è già dalla successiva Cut The Bridge che tornano prepotenti gli echi dal passato; impossibile infatti non pensare alla celebre Bleed It Out quando si ascolta il pattern batteristico del pezzo soprattutto nel suo incipit, o lo stile rappato di Shinoda nelle strofe. E parlando proprio dello stesso Mike Shinoda, rapper, polistrumentista, lyric writer e leader della band, non possiamo non notare come lui stesso sia molto presente in quest’ultima fatica della sua band, sia nelle parti cantate che in quelle rappate e anche in quella “via di mezzo”, che è solito adottare nei suoi progetti. Sicuramente dona un senso di familiarità ai fan, ma in From Zero manca secondo noi nell’efficacia delle sue rime e nel suo “flow”. Ovviamente il buon Mike non è mai stato un rapper tecnicamente dotato come Eminem o Kendrick Lamar, ma il suo stile è sempre stato pungente e diretto, oltre che ad essere assolutamente distintivo ed iconico per la band. Per quanto ci riguarda il suo momento migliore avviene proprio nei minuti finali del disco con il brano Good Things Go dove il buon Mike ci offre un flow dinamico e che sfocia in un build-up di tensione veramente coinvolgente che esplode poi nel ritornello del pezzo cantato da Emily.
L’abbiamo appena nominata, ed è proprio il fattore X di questo disco- Emily Armstrong– una vocalist che ci ha stupiti non solo live ma anche con la sua performance in questo platter offrendo degli scream brutali, talvolta riuscendogli a sostenere per tantissimi secondi (vedi la magnifica Heavy IsThe Crown), ma offrendo tanta emotività anche nelle parti in clean.
Un brano come il terzo singolo Over Each Other ne è un classico esempio. Un brano in cui l’argomento centrale è quella mancanza di comprensione in un rapporto tra due persone. Molto interessante il gioco di parole e il doppio significato associato con le parole del titolo – “all we are is talking over each other”- rappresenta proprio quella dinamica di due persona che si parlano una sopra l’altra senza ascoltarsi a vicenda, causando una delle due nel chiedersi se il suddetto rapporto sia finito – “are we over each other?”. Molto emozionale anche l’impatto di Emily sulla frase “skyscrapers we created on shaky grounds”, a rimarcare come forse quella stessa relazione fosse nata su basi poco solide in principio, come un grattacielo costruito su delle fondamenta traballanti.
Casualty è uno dei brani più heavy del lotto, con quei richiami post-hardcore che ci riportano ai fasti di The Hunting Party e che tra l’altro ci introduce ad un piccolo “gioco vocale” che Emily adotta spesso in questo platter; uno stile molto caratteristico di un vocalist come Jonathan Davis dei Korn dove una frase viene sussurrata in maniera ossessiva, più e più volte, prima che la stessa frase (ma talvolta anche un’altra), venga ripresa e fatta esplodere con uno scream forsennato. Certamente un qualcosa di nuovo che nell’ambito della musica dei Linkin Park non abbiamo mai sentito- probabilmente un’arma dell’arsenale della Armstrong che ha voluto portare in seno alla sua nuova band.
Two Faced è uno dei momenti più classicamente Hybrid Theory che la band porta su questo disco. I riff dal sapore Nu-Metal di Brad Delson sono abrasivi ed “in your face” e lo scratching iconico di Joe Hahn ci riporta indietro di quasi venicinque anni per la gioia dei tanti che sono cresciuti con la musica di questa leggendaria band.
Ad ammorbidire il tutto ci pensano brani come Overflow e Stained. Il primo è forse il pezzo più atipico del disco, con quel suo vibe un pochino esotico e quel suo retrogusto RnB, che ci riporta in parte ad un brano come Nobody’s Listening da Meteora, ancora una volta con Emily Armstrong che dipinge con la sua voce in pulito degli scenari enigmatici ed affascinanti (“turning from a white sky, to a black hole”).
Ma è Stained che ci ha davvero colpito soprattutto per le parti vocali della Armostrong che nel ritornello con la sua estensione vocale si avvicina ad una melodia che ricorda molto Adele (la rinomata popstar britannica). Davvero una delle sue migliori performance vocali nel suddetto platter, ed interessante la dinamica vocale con le parti rappate di Shinoda, per un pezzo pop moderno di grande qualità, con qualche chitarra dal sapore più rock usata in maniera occasionale.
IGYEIH ( acronimo per “I gave you everything I had”), è un altro pezzo pesante con delle parti di sampling minimali ma efficaci da parte di Joe Hahn che esplode nel ritornello (forse un pochino telefonato). Anche qui c’è la canonica frase ripetuta in maniera compulsiva da Emily, “from now on I don’t need you”, prima recitata in maniera più calma, poi urlata in maniera brutale ed esplosiva. Certamente questa traccia insieme al trio Casualty– Two Faced– Heavy Is The Crown (a proposito, ma vogliamo parlare delle orchestrazioni minimali utilizzate all’inizio di quest’ultimo brano, HITC, che richiamano molto Faint?) rappresentano il lato più heavy di questo platter ,che purtroppo si chiude troppo, troppo presto, con i suoi trentadue minuti scarsi di durata. Forse, a conti fatti, il difetto più grande di questo lavoro.
E siamo giunti alle conclusioni. From Zero è un solido ritorno per i Linkin Park che non osano troppo e non si addentrano praticamente mai in territori inesplorati, dando all’ascoltatore medio ciò che si sarebbe probabilmente aspettato dal ritorno in pompa magna di questa band. Gli elementi Nu Metal degli albori ci sono, così come le contaminazioni dal rock alternativo pescate da Minutes To Midnight, assieme a parti più pop ed un uso dello scratching e del sampling minimale ma efficace. Emily Armostrong si rivela essere uno dei punti di forza di questo album con una voce che brilla sia nello scream furioso che nelle parti più melodiche. C’è anche un songwriting di buon livello e una variazione nella tipologia dei brani che seppur non inventandosi nulla riescono comunque ad offrire un ascolto dinamico e appagante. Una grande menzione ma in negativo, va per la durata del disco, troppo corto, anche per gli standard della band, ed un fattore che lascerà l’ascoltatore desideroso di ascoltare di più, ma anche un pochino innervosito per aver aspettato sette anni e mezzo per soli trentadue minuti di musica finiti fin troppo presto. Concludiamo quindi questo resoconto con sensazioni tutto sommato positive e allo stesso tempo vogliosi e speranzosi di avere nuova musica (magari stavolta un filo più coraggiosa) da parte della band, sperando che ciò accada in un futuro non troppo lontano.