Recensione: Funeral Altar Epiphanies
I Temple Of Scorn sono una nuova entità scoperta dall’inarrestabile etichetta indiana Transcending Obscurity Records. Formatisi nel 2018, “Funeral Altar Epiphanies” è il loro primo full-lenght, che giunge sugli scaffali dei negozi specializzati soltanto dopo un EP, “Preliminary Mass” (2021).
Come da tradizione della succitata label, il genere trattato è il death metal, che il combo danese interpreta seguendo i dettami di uno stile assieme antico e moderno. Antico, poiché il sound richiama i primi, convulsi vagiti emessi alla fine degli anni ottanta/inizio anni novanta. Moderno, poiché gli stilemi, votati alla più fitta oscurità, formano una massa da cui attingono, oggi, numerosissime band che interpretano il death mischiandolo con il doom oppure lo sludge. Per una miscela melmosa, dall’alto peso specifico, colorata delle tinte nerastre della roccia profonda.
Comprendendo, nel caso dei Nostri, una componente totalmente horror (‘Subsequent Mass’) che si manifesta un po’ ovunque, lungo il tormentato cammino dalla succitata traccia alla closing-track ‘Burning Palace of Wisdom’. Tormentato. Sì, giacché tortuoso e pericoloso per evitare di essere polverizzati da giganteschi macigni – le song – che piovono addosso come durante un nubifragio. Macigni in cui si può percepire l’orrore della consapevolezza della vacuità umana, se commisurata all’immensità degli Antichi dormienti.
Ecco allora che riemerge il tema della paura, la quale nasce e cresce a mano a mano che si ascolta l’LP, ammantandolo di un’emozione che, più delle altre, proviene dall’abisso che approfondisce all’infinito l’animo umano. Un mood davvero potente, che funge da segno caratteristico principale nella musica del quintetto di Aarhus.
Non solo paura, però: i suddetti picchiano fortissimo, come dei dannati. Il tenebroso death è agli estremi dell’oltranzismo metallico. Seppure non manchino break rallentati (‘Portals to Dystopia’) che, a parere di chi scrive, servono a dare risalto alle sezioni più convulse delle tracce nonché a scavare a fondo nella mente, il metallo della morte dei Temple Of Scorn è potente, violento, maligno. Sia, appunto, quando l’incedere è basato sugli slow-tempo (‘Funeral Altar Epiphanies’), sia quando lo spazio tempo si distorce a causa di terrificanti blast-beats (‘Wretched Inner Sanctum’).
A ogni modo, la sensazione che si riceve è intensa, grazie a un sound perfettamente formato che riesce a esplicitare senza pecche quello che hanno in testa Simon P. Katborg e compagni. Katborg che romba pesante per via di un growling intenso, cavernoso, abbastanza intelligibile. Giova rilevare che la sua importanza all’interno dell’economia della band è essenziale, poiché è lui, con il suo carattere deciso, a prendere per mano il tutto per trascinarlo nelle buie caverne che corrono ignote sotto la superficie.
Non si può nemmeno dimenticare il grande lavoro eseguito dalle chitarre di Flemming C. Lund e Svend E. Karlsson, creatori di un Mondo parallelo dal cielo costantemente plumbeo. Il riffing, come accade spesso in questi casi, è abnorme. Un torrente in piena che travolge ogni cosa mediante un fase ritmica ricchissima di varietà (‘Burden of Decline’) e che, ogni tanto, strizza l’occhiolino a un pizzico di melodia (‘Burning Palace of Wisdom’).
Detto questo, per onor di verità necessita porre l’accento su due difetti (che, peraltro, affliggono parecchi act che interpretano questo tipo di death). Il primo è lo stile. Deciso, sì; adulto, sì; professionale, sì. Ma troppo simile a tanti altri, tant’è che, a un primo ascolto, è arduo riuscire ad azzeccare il nome della formazione europea. Il secondo riguarda le canzoni. Ben congegnate, tutte rispettose dello stile natìo, formalmente ineccepibili. Ma prive di quel quid in più che le elevi sì da poterle riconoscere con facilità. Tendenzialmente simili le une alle altre.
Malgrado tutto, per chiudere la disanima, “Preliminary Mass” è comunque un’opera che dà qualcosa di suo pugno, in termini di sentimenti e sensibilità. E questo non è poco. I Temple Of Scorn, infine, mostrano una professionalità non comune, che si riverbera in una bontà realizzativa non da poco.
Daniele “dani66” D’Adamo