Recensione: Future’s Shadow Part 1: The Clandestine Gate
I Bell Witch sono, senza alcun dubbio, una delle realtà più interessanti emerse dalla scena underground nell’ultime decennio. Il duo di Seattle, formato da Dylan Desmond (basso e voce) e Jesse Shreibman (batteria, organo e voce), che nel 2015 ha sostituito Adrian Guerra (R.I.P.) dietro alle pelli, è autore di un Doom moderno, un muro di suono fragoroso e pachidermico in cui si fondono Funeral Doom, Drone e Post Metal, ma capace di aperture a passaggi melodici e fragili. Il tutto è tenuto insieme da un’attitudine decisamente alternative, tipicamente statunitense.
Ulteriore riprova della distanza da un approccio tradizionalmente Metal è l’assetto della band che, in modo del tutto non convenzionale, è priva di chitarre. Dylan Desmond sopperisce a tale mancanza con un basso a 6 corde, utilizzando le corde di tonalità più alta per eseguire i riff e le più basse per tenere le ritmiche e creare quella profondità riverberante che caratterizza le composizioni del gruppo.
Lo scorso 21 aprile i Bell Witch hanno pubblicato, via Profound Lore Records, “Future’s Shadow Part 1: The Clandestine Gate”, il quarto full lenght della loro carriera e prima parte di una trilogia che verrà completata negli anni a venire. Al momento l’album è disponibile nella sola versione digitale, per vinile e CD si dovrà attendere il 9 giugno. Se si eccettua “Stygian Bough: Volume I”, collaborazione con Aerial Ruin (aka Erik Moggridge) qui recensita, l’ultima release degli americani risale al 2017 e più precisamente a quel capolavoro di “Mirror Reaper”, costituito da un’unica traccia (“As Above, So Below”) da 83 minuti. Esattamente come “Mirror Reaper”, anche il nuovo “Future’s Shadow Part 1: The Clandestine Gate” contiene un solo pezzo (“The Clandestine Gate”) e anche questo della durata di 83 minuti.
Per celebrare il proprio ritorno, il 21 aprile il gruppo ha eseguito il nuovo disco per intero al Roadburn Festival di Tilburg. Dopo 11 anni di assidua presenza, purtroppo non ho potuto assistere al Roadburn 2023 appena conclusosi, ma chi era presente ha parlato di un’esibizione trascendentale da parte dei Bell Witch e, avendo assistito a tre loro precedenti esibizioni al festival, non stento a crederlo.
Come si diceva l’album è costituito dalla sola – e lunghissima – “The Clandestine Gate”. Dopo alcuni passaggi in stereo sono arrivato alla conclusione che la composizione, pur nel suo fluire organico e privo di soluzione di continuità, è idealmente scomponibile in 3 segmenti. Non escludo affatto che possa trattarsi di una mia personalissima percezione, che tuttavia utilizzerò come schema descrittivo.
Il primo segmento occupa i primi 25 minuti circa di “The Clandestine Gate”: l’apertura è appannaggio di una mesta melodia di organo dalle note prolungate che si succedono lentamente: non c’è traccia alcuna delle atmosfere ritualistiche e cerimoniali tanto care al genere; piuttosto il mood è evocativo di sensazioni tremendamente immanenti come solitudine, desolazione e perdita. L’entrata del basso segna l’inizio di un crescendo molto graduale che, dopo diversi minuti, scoppia in un’ondata di Doom devastante e opprimente, che sconfina ampiamente nel Drone, pur mantenendo linee vocali pulite e riff che non si negano alcune aperture melodiche.
Al minuto 25 circa ha inizio il secondo segmento del brano: il fragore che solo pochi istanti prima devastava timpani e spirito dell’ascoltatore lascia ora il posto a linee di basso minimali, con note che si avvicendano in un gioco di suoni e pause. L’ingresso di organo, batteria e voce, nonché i riverberi Drone sempre più prossimi, è foriero di una nuova esplosione, che in effetti deflagra nel giro di qualche minuto scaricando tutta la sua potenza a base di crushing Doom e growl gutturali e protraendosi per circa 30 minuti.
Allo scoccare dell’ora, dopo un incredibile riffing di basso, arriva la reprise delle arie d’organo iniziali che apre il terzo ed ultimo segmento di “The Clandestine Gate”. Anche il basso, inserendosi, ripropone il riff di partenza, ma dopo alcuni giri il tutto evolve in un nuovo scossone, in cui la voce, alternativamente pulita e growl, si dipana su riff ultra-saturi e ritmiche lente e potentissime. Tornata la calma, i riflettori tornano sul basso che, in assoluta solitudine, chiude il brano con una melodia colma di scoramento.
Ulteriormente arricchito dalla presenza di un peso massimo come Billy Anderson dietro al banco del mixer, “Future’s Shadow Part 1: The Clandestine Gate” è un lavoro estremamente maturo e complesso: gli episodi di cui si compone si susseguono in una tensione continua a un cambiamento sofferto e ottenuto molto lentamente, ma al tempo stesso incorporano una certa ciclicità, come se la trasformazione fosse funzionale ad un inizio sempre nuovo e diverso. Un’opera, il termine in questo caso non è assolutamente abusato, travolgente ed estenuante, ma soprattutto di rara magnificenza sia sotto il profilo concettuale che quello prettamente musicale.