Recensione: Game of Sins

Di Marco Giono - 17 Gennaio 2016 - 0:01
Game of Sins
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2016
Nazione:
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55

 

Non è certamente un caso se siete qui giunti errando per i mari sconfinati e binari della rete. Quel richiamo irresistibile del tempo perduto si è materializzato in una serie di segnali luminosi colorati da pallide luci al neon. Li avete seguiti fino a che la nebbia vintage che vi appannava la vista si è dissolta, per poi ritrovarvi in un antro remoto di un antico pub al cospetto di una slot machine fluttuante. Inserite un gettone, scorrono veloci figure arcaiche, fate jackpot: Axel, Axel e Axel. Eravate qui per lui e quindi non vincerete gettoni d’oro, ma una recensione (fortunelli eh?) vintage di come sarebbero state le cose se il tempo si fosse fermato e invece

invece ci troviamo di fronte al tentativo nobile di rianimare ciò che stato. Axel Rudi Pell non è mai stato avanguardia, in fondo il suo amore per il classicume, i castelli e una statua di sua maestà Blackmore è sempre stato onesto e palese nella sua musica. Solo che l’apice artistico, quindi creativo è probabilmente stato ormai raggiunto nel periodo che va dal 1991 al 1996 con album quali “Nasty Reputation” (qui cantava Bob Rock), “Eternal Prisoner”, “Between the Walls” e “Black Moon Piramid”. Poi è tutto finito? Devo smettere di leggere la recensione? No… almeno non per questo motivo. Nel 1998 Johnny Gioeli sostituiva con bravura l’uscente Jeff Scott Soto. Successivamente Jorg Michael viene sostituito alla batteria da Mike Terrana. Malgrado la perdita di due indiscussi talenti gli Axel Rudi Pell riuscivano comunque a mantenersi su livelli più che buoni (ne sono un esempio “Oceans of Time” del 1998 e “The Masquerade Ballad” del 2000) . Solo che nell’ultima decade…

solo che nell’ultima decade la magia riaffiora solo di rado, in pochi brani Axl Rudi Pell riesce a tornare a quell’eleganza melodica usualmente miscelata ad un’energia che straripa in partiture tra l’hard rock e il power metal.  Non è così semplice ripetersi e ritrovare lo spunto vincente, infatti lo stile di Axel Rudi Pell ha poco margine. Riff, talento e ispirazione.
Due anni ormai trascorsi da “Into the Storm” del 2014 e ci riprova con un album intitolato “Game of Sins” la cui copertina è rimando, per stile e scelte cromatiche, al passato senza fine degli Axel Rudi Pell. Com’è andata veramente con questo nuovo lavoro? C’è tutto quello che ti aspetti dal gruppo. Gioeli canta alla grande ed è un grande. La chitarra di Axel riesce spesso a brillare, ci sono anche passaggi pregevoli ed il tutto è esaltato da una produzione brillante che talvolta rende persino i suoni moderni. Così dopo l’intro strumentale “Lenta Fortuna” segue la classica traccia veloce intitolata “Fire”, ma è proprio da qui che i dubbi affiorano. Certamente il titolo reca già in partenza i segni del tempo, rughe ovunque, ma non è quello il problema (sarebbe stato certamente peggio farsi un lifting artificioso), in realtà quello che qui non fa funzionare la musica è l’immobilità, ogni cosa è al suo posto, addirittura la produzione dei suoni tenta anche la variante modernista come detto, ma manca lo spunto, la melodia sembra il risultato finale di una clonazione infinita, dove la magia viene gradualmente stilizzata fino a diventare solo sbiadito riflesso. Non basta. Così la terza traccia “Sons in the Night” ha i colori della notte, ma l’effetto è lo sbadiglio e sentire Gioeli che canta “…sons in the night, restless and wild…” riporta alla mente sogni antichi di piramidi nere e prigionieri infiniti. Poi il sogno continua attraverso la title track su uno sfondo di deja-vu antichissimi, solo la traccia “Falling Star” ci risveglia attraverso il suono di un dragone infuocato ed elettrico che disegna un momento di gloria.

Centrale e immancabile la ballad intitolata “Lost in Love”, ma in realtà, malgrado l’ottima prestazione vocale di Gioeli, il brano si perde appunto in una melodia diluita e poco convincente. Delle restanti tracce citerei soltanto “Till the World Says Goodbye” che nel suo andamento tenebroso ed epicheggiante si esalta sia nel buon riffing che nella voce sempre a suo agio di Gioeli. Pregevole anche la melodia. Ottimo brano.

Sarebbe finita qui o meglio avrebbe dovuto finire qui, ma c’è anche la bonus-track. Axel Rudi Pell non sceglie un brano qualsiasi, ma un pezzo di storia intitolato “All Along The Watchtower” registrato nel 1967 da Bob Dylan. L’originale era qualcosa di freddo, dall’incedere sgraziato. Sembrava che tra la musica e la voce Dylan ci fosse un rapporto di sottrazione, ma allo stesso tempo funzionava insensatamente bene. Poi nel settembre del 1968 fu pubblicata la cover di Jimi Hendrix ed era un perfetto delirio musicale, ogni nota aveva trovato una sua nuova e necessaria collocazione. Il racconto si trasformava un epico scontro tra il cosmo e vicende terrene innominabili. Ai nostri giorni Axel Rudi Pell tenta l’azzardo. Se la premessa di sfidare gli altissimi è davvero ambiziosa, l’esito è sconfortante. Ovviamente il brano è ben confezionato, ma si svuota di ogni contenuto per diventare qualcosa che non avrebbe mai dovuto essere. Un capolavoro come “All Along The Watchtower” che in fondo prescinde i generi qui diventa esso stesso genere, una sorta di rivistazione in chiave heavy che in realtà è anche ben fatta (ammirevole la prova alla batteria di Bobby Rondinelli)  e piacevole, ma lo è se prescindi dall’originale ed è operazione non praticabile. 

Non mi aspetto da Axel Rudi Pell chissà quale progressione ardita, ma cerco quel tocco in grado di trasformare cose semplici in magia tale da elevarlo al di sopra rispetto alla moltitudine ignara. Ripeto che non è un problema di forma, di bravura o di produzione dei suoni. Qui in realtà manca, in gran parte dei brani, quell’ispirazione che trasforma il passato in una illusione senza tempo. 

 

MARCO “Krefeld” GIONO

 

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